Nei giorni scorsi in Germania è caduto per la prima volta il cosiddetto “Brandmauer”, il cordone sanitario informale che tutti i partiti tedeschi hanno da sempre praticato nei confronti dell’estrema destra. La Christlich Demokratische Union Deutschlands (Cdu), il principale partito conservatore del paese, ha approvato una mozione non vincolante sull’immigrazione anche grazie ai voti dell’Alternative für Deutschland (Afd), formazione di destra radicale. Dalla fine della Seconda guerra mondiale non era mai accaduto che un provvedimento venisse approvato anche coi voti dell’estrema destra, rimasta finora ai margini del processo decisionale democratico. Al momento, la Cdu è prima nei sondaggi sulle intenzioni di voto (attorno al trenta per cento), ma l’Afd è in crescita: ha guadagnato tre punti percentuali e si attesta al momento intorno al ventuno per cento. Si vota il ventitré febbraio.
Secondo molti osservatori, il successo crescente dell’Afd è sia causa che conseguenza di una rilettura revisionista del nazismo. Lo sdoganamento di questa formazione di estrema destra è passato, infatti, da una progressiva normalizzazione del nazismo iniziata già a metà degli anni Ottanta con il dibattito sull’unicità dell’Olocausto, il cosiddetto Historikerstreit. Come notato spesso dai ricercatori esperti di memoria collettiva, lettura del passato del proprio gruppo nazionale e posizionamento politico sono strettamente legati. Oggi la “cultura della memoria” della Germania (“Vergangenheitsaufarbeitung”, in tedesco), ampiamente celebrata come un modello virtuoso di confronto con un passato autoritario, sembra sempre meno condivisa.
I politici dell’Afd hanno in più occasioni cercato di ridimensionare i crimini commessi dal nazismo. Nel 2018 alcuni politici locali dell’Afd in Baden-Württemberg avevano chiesto a un sindaco di proibire l’applicazione delle “pietre di inciampo”, le piccole placche commemorative posizionate fuori dalle abitazioni dove abitavano persone ebree che furono deportate nei campi di sterminio. Poco prima delle scorse elezioni europee, un candidato dell’Afd, Maximilian Krah, aveva dichiarato che non tutti i membri delle Ss nazista erano da trattare automaticamente come criminali: «di ciascuno si sarebbero dovute accertare le responsabilità individuali», ha argomentato. Björn Höcke, il leader del partito in Turingia che ha portato l’Afd al primo posto alle scorse elezioni regionali, è stato più volte multato per aver utilizzato slogan nazisti.
Nella discussione con Elon Musk tenuta live su X lo scorso mese, la candidata cancelliera dell’Afd Alice Weidel ha sostenuto che Hitler non fosse un politico di destra, bensì un “comunista”. Qualche giorno dopo, il ventisei gennaio, lo stesso Musk è intervenuto a un convegno dell’Afd: «i figli non dovrebbero sentirsi colpevoli degli errori dei padri», ha detto. La normalizzazione del nazismo e la riabilitazione del suo operato è un tassello importante della strategia politica del partito. Proponendo politiche identitarie, protezioniste e nazionaliste analoghe, è importante per l’Afd che l’esperienza hitleriana venga vista come un precedente “normale”, una modalità di governo a cui potersi legittimamente ispirare.
Nell’analizzare l’ascesa di questo tipo di formazioni radicali viene spesso da chiedersi quanto le persone del tempo sapessero dei loro piani. Nel tentativo di farsi percepire come un’opzione politica legittima, i partiti di estrema destra celano solitamente gli aspetti più allarmanti delle proprie proposte politiche all’opinione pubblica, condividendoli solo internamente e rimandando la loro attuazione al momento della presa del potere. Si tende quindi a pensare che le persone non sapessero, o non avessero i mezzi per prevedere la violenza e la repressione sistematiche che sarebbero state praticate da queste forze politiche una volta al governo, prima su alcune specifiche minoranze e poi sulla popolazione in toto.
La storia del Münchener Post contraddice questa interpretazione. Il Münchener Post era il giornale dell’opposizione socialdemocratica bavarese nel primo dopoguerra. Come ricostruito da Ron Rosenbaum, critico letterario autore de “Il mistero Hitler”, iniziò a documentare le azioni di Adolf Hitler e dei suoi sodali fin dal 1921, l’inizio dell’ascesa dell’ex caporale austriaco.
Proprio mentre Hitler cercava di accreditarsi presso le élite politiche conservatrici della Baviera, le inchieste del Münchener Post rivelavano le lotte intestine al nascente partito nazista, scoprendo anche l’esistenza di una “squadra della morte” (la cellula G) incaricata di eliminare gli oppositori. Il giornale scandagliava inoltre la biografia del futuro Führer, illuminando gli aspetti più controversi su cui lui avrebbe preferito tacere. E lo faceva negli anni seguiti al fallito putsch di Monaco, dove Hitler veniva largamente percepito, in patria e all’estero, come un politico sì estremista, ma innocuo, poco capace; una minaccia non credibile.
L’8 novembre del 1923, i nazisti risposero devastando la redazione del giornale che Hitler chiamava “Münchener Pest”( la “piaga di Monaco”), bruciando le copie e gli archivi. Cercarono poi di uccidere Erhard Auer, editorialista del giornale e portavoce dei socialdemocratici. Contando su una magistratura ideologicamente affine, Hitler querelò il Münchener Post e ottenne alcuni risarcimenti. Il giornale continuò a fare il suo lavoro, documentando la trasformazione della creatura hitleriana da ristretto gruppo di radicali nostalgici a partito di massa.
Ma soprattutto, furono i reporter del Münchener Post i primi a scovare e pubblicare, il 9 dicembre del 1931, un documento a uso interno del partito che conteneva una parola che sarebbe diventata famosa solo un decennio più tardi: “endlösung” , la “soluzione finale” al “problema ebraico”. All’epoca, questa consisteva nella proposta di schiavizzare l’intera popolazione ebraica della Germania. Undici anni più tardi, alla conferenza di Wannsee, sarebbe diventata lo sterminio di massa nella camera a gas.
Il Münchener Post prese inoltre a pubblicare con regolarità un bollettino dove aggiornava sugli omicidi politici commessi dal nascente regime. I titoli in prima pagina lasciavano poco spazio all’interpretazione: “La Germania sotto il regime di Hitler: “Omicidio politico e terrore”; “La colpa di sangue del partito nazista”; “La Germania di oggi: Non c’è giorno senza morte”; “Fuorilegge e assassini al potere”; “La gente si lascia intimidire”. Nel gennaio del 1933, poco prima che Hitler salisse al potere, il Münchener Post pubblicò un’inchiesta sull’omicidio del giovane militante nazista Herbert Hentsch, punito probabilmente per “deviazioni dalla disciplina”. Il titolo in prima pagina era: “Hitler, cos’hai fatto?”.
In una ricerca accademica dedicata alla storia del il primo giornale ad opporsi sistematicamente al nazismo, Sara Twogood ha scritto: «La vera personalità di Hitler è stata resa dolorosamente chiara nelle notizie stampate regolarmente per almeno dodici anni prima che lui arrivasse a guidare il Paese. I militanti contro Hitler combatterono con il cuore e misero a rischio la loro libertà e la loro vita, sperando che il mondo li ascoltasse […] Hanno affrontato il carcere e la morte, cercando senza successo di mettere in guardia il mondo dall’uomo che personificava il male, Adolf Hitler».
Il 30 gennaio del 1933 quell’uomo venne nominato cancelliere. Due mesi dopo, venne lanciato il “riallineamento dei media tedeschi” (“gleichschaltung”), guidato dal ministro per la propaganda Joseph Goebbels. Il Münchener Post fu chiuso. I giornalisti più in vista furono inviati al campo di concentramento di Dachau.