Un paese poco normale Il ministero della Verità di Meloni, e la manipolazione dei fatti

Il caso Almasri e il fiasco sui migranti in Albania hanno in comune i metodi intimidatori usati contro la magistratura, principale capro espiatorio di un esecutivo che può contare sulla collaborazione di un massiccio apparato informativo

Antonio Tajani, Giorgia Meloni e Carlo Nordio (Roberto Monaldo / LaPresse)

La gravità dell’attacco di Giorgia Meloni alle istituzioni di garanzia si può cogliere appieno da alcuni particolari che incredibilmente fingiamo di non vedere. Cominciamo dal famoso “discorso dell’avviso di garanzia”. A parte l’improprietà della definizione, le discussioni si sono accese intorno al dubbio se la comunicazione inviatale dalla procura di Roma (con tanto di goffi e fantozziani «distinti ossequi» del procuratore, manco fosse un omaggio floreale) fosse o meno un “atto dovuto”. 

Una questione che potrebbe appassionare qualche azzeccagarbugli ha tenuto banco sulle maggiori testate nazionali come un caso politico. Un seguitissimo blog giuridico (Terzultima fermata) ha pubblicato il contenuto di un’analoga procedura intentata dalla medesima procura all’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte, denunciato da una improbabile associazione di no-vax per una sfilza di reati, a partire dall’attentato alla Costituzione. L’allora procuratore capo Michele Prestipino iscrisse Conte e inviò gli atti al tribunale dei ministri, che archiviò immediatamente per infondatezza della notizia di reato.

Meloni questa volta ne ha fatto un casus belli mobilitando il formidabile apparato mediatico a sua totale disposizione, compreso il servizio pubblico della Rai utilizzato come “buca delle lettere” di pizzini di avvertimento al malcapitato procuratore Francesco Lo Voi, un prudente magistrato moderato tutt’altro che ostile alla maggioranza che governa il Paese.

Così Meloni ha veicolato verso l’esterno, tramite il TG1, la tesi che Lo Voi fosse mosso da un desiderio di vendetta verso il governo, che gli aveva tolto il privilegio dei voli di Stato da lui richiesti per motivi di sicurezza. Nel famoso “Paese normale” che l’Italia da un pezzo ha cessato di essere, qualcuno si chiederebbe chi possa aver trasmesso una notizia così riservata (corredata di documenti) a un organo di informazione (pubblico) per finalità di mascariamento ritorsivo del titolare di un delicatissimo ufficio pubblico. Il tutto per occultare la vera natura del problema: la riconsegna alla Libia di un criminale torturatore ricercato dalla Corte penale internazionale, in base a quanto previsto dal Trattato di Roma firmato anche dall’Italia nella propria capitale nel 1999. 

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha pubblicamente irriso il trattato e la Corte che il suo Paese ha voluto e creato senza porsi il problema del suo ruolo. Così siamo ridotti. Nel pieno dell’aggressione a Lo Voi, nessuno ha pensato di andare a leggere il provvedimento con cui la Corte di Appello di Roma ha scarcerato il generale Almasri contenente una vera notizia di reato a carico del ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Come si può leggere, il torturatore è stato scarcerato in quanto Nordio, pur informato sollecitamente del suo arresto da parte della Procura Generale della capitale, è rimasto inerte invece di trasmettere il fascicolo a lui trasmesso dalla corte dell’Aja. Non occorre essere raffinati giuristi per individuare in questa vicenda la possibile configurazione del reato di omissione di atti d’ufficio (articolo 328 del codice penale), se non il favoreggiamento ipotizzato nel famoso esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti, inopinatamente assurto agli onori della cronaca. 

Meloni ha sostenuto davanti alla Nazione che la Corte penale non avesse inviato alcuna documentazione a Nordio, ma tale circostanza è stata smentita da alcuni politici vicini a alla presidente del Consiglio come Donzelli, oltre che dallo stesso Tajani, che hanno riferito di un «fascicolo di quaranta pagine in inglese» che richiedeva tempo per essere tradotto (sic!).

Sarebbe molto grave una bugia di Meloni su tale circostanza che, comunque, ha già peccato di manipolazione e omissione, allorché – sempre nel messaggio alla Nazione via social – ha dichiarato che Almasri era stato liberato dai giudici dimenticando il contributo decisivo del suo ministro, sancito in un provvedimento giurisdizionale.

Nessuno finora ha saputo spiegare come mai il governo italiano, ancor prima della decisione della Corte di Appello, avesse disposto l’invio di un aereo dei servizi a Torino, dove Almasri era detenuto, per portarlo in Libia. Nel succitato Paese normale ci sarebbe già materiale per uno scandalo: in Italia, pare di capire, il problema sarebbe non il volo di Almasri, ma quelli mancati di Lo Voi. Sarebbe invece interessante sapere cosa il ministro della Giustizia abbia comunicato al procuratore generale di Roma. 

L’augurio è che vi provveda il tribunale dei ministri, che può svolgere accertamenti in tal senso. Altrimenti tocca accontentarsi delle rassicurazioni del portavoce ufficioso del governo Meloni, Bruno Vespa, che sempre nell’ambito di una trasmissione del servizio pubblico ha garantito con tono concitato che le «cose sporchissime» sono sempre state fatte anche in passato in nome della sicurezza dello Stato.

Il punto è che nessuno nel governo ha invocato la sicurezza nazionale per l’inaudita decisione di liberare il criminale Almasri, per cui quella di Vespa costituisce una clamorosa confessione. Tutti i lati ombrosi di questa incredibile vicenda sono stati oscurati dalle manipolazioni e dalle omissioni del massiccio apparato informativo del governo, che ha scatenato una caccia ai magistrati, indicati come una sorta di associazione eversiva di sabotatori della politica della maggioranza.

Per non farsi mancare nulla, analoghi metodi intimidatori sono stati riservati ad altri magistrati della Corte di Appello di Roma che hanno annullato l’invio di quarantatré immigrati nei famosi “resort” albanesi voluti da Meloni al modico prezzo di circa un miliardo di euro (e rimasti inutilizzati). 

Visti i primi dinieghi ai trasferimenti operati dalle competenti sezioni sull’immigrazione dei tribunali di Roma e Bologna (sulla base di una sentenza della corte di giustizia europea), il governo aveva pensato bene di cambiare i giudici (come avverrebbe in una qualsiasi repubblica delle banane). 

Purtroppo la geniale trovata non ha sortito l’effetto sperato, perché la Corte europea, sollecitata dai precedenti giudici italiani – tra cui la stessa Corte di Cassazione – non si è ancora pronunciata (lo farà alla fine di questo mese) sulla questione dei requisiti dei cosiddetti «Paesi sicuri» dove poter rispedire per direttissima gli immigrati irregolari.

Di fronte all’ennesimo fiasco, l’esecutivo ha puntato il dito contro “le toghe rosse”,  assumendo che fossero stati mandati a decidere sui ricorsi dei migranti gli stessi magistrati dei tribunali che si erano già pronunciati. In realtà le Corti di Appello non hanno magistrati sufficienti anche a causa dei ruoli scoperti della magistratura dovuti ai ritardi nei concorsi organizzati dal ministero di Nordio. 

Ma in Italia è più importante la falsa rappresentazione organizzata dal “ministero della Verità” di Meloni. La realtà, già anticipata da questo giornale, è che la nuova spedizione in Albania dei quarantatré migranti era già destinata al fiasco: un’operazione totalmente insensata, senza che sia subentrata alcuna decisione della Corte di Giustizia. In un Paese normale, la Corte dei Conti richiederebbe ragione di ciò. Nell’Italia ridotta a controfigura del Venezuela di Maduro la colpa è dei giudici, ma in più larga misura del fatto che incredibilmente il nostro continua a essere uno Stato di diritto. Vedremo se chi ancora ci crede scenderà in piazza per testimoniarlo, a partire da un’inedita unione tra avvocati e magistrati: sarebbe un unicum nella storia del paese e un effetto paradossale della politica giudiziaria del governo Meloni.

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