Per farsi un’idea di quello che l’arrivo Donald Trump alla Casa Bianca sta provocando nel governo federale americano, bisogna parlare con le persone che ci lavorano – ha scritto l’Economist.
«Lavoro nel governo da oltre dieci anni, ho vissuto la prima amministrazione Trump e niente è paragonabile a questo», racconta un dipendente del Tesoro. Alcuni lavoratori, per paura di essere licenziati, stanno ripulendo i profili social da contenuti che potrebbero essere interpretati come «sleali» nei confronti del presidente. Altri stanno invece sistemando i curriculum, prevedendo che presto cercheranno un nuovo lavoro. Ma tutti sono «in preda al panico assoluto», dice un altro alto funzionario.
Il neopresidente degli Stati Uniti si è insediato da due settimane. E tra i vari obiettivi nel suo mirino, ci sono gli oltre due milioni di dipendenti federali americani. A suon di ordini esecutivi, ha licenziato i funzionari ritenuti non allineati, messo altri in congedo forzato, vietato il lavoro da remoto ed eliminato interi dipartimenti e sovvenzioni già approvate dal Congresso.
Oltre ai pericoli per la democrazia e un’idea altrettanto pericolosa che la macchina pubblica «appartenga» al politico di turno, viene fuori una visione padronale e anacronistica della gestione del lavoro. Trump si presenta come un monarca, più che un presidente. «King Don», come lo chiama l’Economist.
Anni e anni di trasformazioni del mercato del lavoro, ricerche, sperimentazioni negli stili di leadership e nelle modalità organizzative ribaltati dal commander in chief. Come un vecchio padroncino di un piccolo mondo antico, che vuol puntare il dito urlando «You’re fired» in stile “The Apprentice”, circondato da soli yes man.
Cosa è successo
In campagna elettorale, Trump aveva promesso che avrebbe «fatto a pezzi il deep state», reo di voler ostacolare i suoi obiettivi politici. Un modo per prevenire eventuali future indagini su di lui, ma anche per realizzare quella ambizione conservatrice di ridurre la vecchia burocrazia e tagliare la spesa.
Con una raffica di ordini esecutivi, Trump ha fatto capire che può fare praticamente tutto ciò che vuole del governo federale, sostenendo di avere «autorità unica ed esclusiva» su assunzioni, licenziamenti e decisioni di spesa. Tra le prime cose, ha ripristinato il cosiddetto “Schedule F”, che consente di riclassificare i lavoratori pubblici aumentando i posti sottoposti allo spoil system, in modo da rimuovere le consuete protezioni e licenziare chi vuole. In poche ore sono stati licenziati i responsabili dell’immigrazione, i procuratori del Dipartimento di Giustizia che avevano indagato su di lui e diversi ispettori generali, mentre i dipendenti dei programmi “diversità, equità e inclusione” sono stati mandati in congedo forzato. A queste decisioni, si è aggiunto poi un blocco completo delle assunzioni nella maggior parte dei dipartimenti.
L’obiettivo finale è convincere quanti più lavoratori, soprattutto quelli a cui non piace Trump, ad andarsene. E infatti il 28 gennaio è stata inviata un’email dall’Ufficio per la gestione del personale (Opm) in cui si offriva a ogni dipendente la possibilità di «dimissioni differite» con l’incentivo di una cospicua buonuscita. Le condizioni sono: se si danno le dimissioni entro il 6 febbraio, fino alla fine di settembre si riceveranno otto mesi di stipendio restando a casa. Se si sceglie invece di restare, l’avvertimento è: saranno richiesti livelli più elevati di produttività e non sarà data nessuna sicurezza sulla tenuta del posto di lavoro.
Dietro queste comunicazioni, ovviamente, c’è lo zampino di Elon Musk, messo a capo del cosiddetto Doge, Department of government efficiency. Nel novembre del 2022, quando comprò Twitter, fece la stessa cosa: offrì ai dipendenti la possibilità di lasciare l’azienda nel caso in cui non fossero stati d’accordo con i suoi piani per il futuro. L’oggetto della mail inviata a tutto il personale era “Fork in the Road”, che è lo stesso della lettera mandata dall’Opm.
L’Opm, un ufficio che ha da sempre il ruolo di supervisionare le assunzioni e i benefit del personale, è stato trasformato in pochi giorni in un muscoloso strumento di controllo sulla forza lavoro federale. Mentre molti dipendenti junior delle aziende di Musk sono già entrati negli uffici per assumere il controllo dei sistemi informatici governativi ed effettuare «revisioni del codice».
Ma non è affatto chiaro però se le ambizioni di Trump e quelle della «destra tech» capitanata da Musk siano davvero allineate.
La destra tecnologica dice di volere un governo che possa aiutare il Paese a realizzare grandi traguardi e una forza lavoro che valorizzi il merito e il talento. La principale preoccupazione di Trump è invece la lealtà politica, la libertà dai controlli sul suo potere e la capacità di esercitare meglio il potere contro i suoi nemici.
La destra tecnologica ama parlare di assunzioni basate solo sul «merito», Trump esige soprattutto la totale lealtà politica.
Non a caso, tra gli ispiratori di Musk, c’è il blogger Curtis Yarvin, secondo cui la soluzione estrema contro la burocrazia sarebbe il rovesciamento della democrazia americana e la sua sostituzione con una dittatura monarchica. Yarvin, tra l’altro, sostiene queste tesi con argomentazioni che potrebbero essere attraenti per le Big Tech: il governo federale non dovrebbe essere gestito più come un’impresa? E le aziende non sono essenzialmente monarchie che riferiscono a un Ceo?
Chi vincerà?
Molti esperti in realtà sostengono che gran parte di ciò che Trump e Musk stanno cercando di fare sarà probabilmente annullato dai tribunali o dal Congresso. Nella precedente amministrazione Trump, la Corte suprema ha già bloccato diverse assunzioni politiche. E il controllo delle finanze federali resta una prerogativa del Congresso.
Eppure potrebbero volerci anni prima che tribunali decidano. Nel frattempo, i danni potrebbero essere ingenti. I dipendenti che trovano un altro lavoro dopo essere stati espulsi non necessariamente ritorneranno solo perché un tribunale ritiene che il loro licenziamento sia stato sbagliato. E i giovani talentuosi si terranno alla larga da uffici gestiti in questo modo, come ha già messo in guardia il sindacato, con ricadute sulla qualità dei servizi.
Nell’ultima amministrazione Trump, il blocco delle assunzioni ha già causato ingorghi in molti uffici. Il rilascio delle green card e le richieste di cittadinanza si sono interrotti, per la felicità di Trump, anche a causa dei tagli al Dipartimento di Stato. Ma le code si sono allungate pure nei servizi governativi di base come il rilascio dei passaporti o i rimborsi fiscali.
È vero che la burocrazia americana spesso è lenta e troppo macchinosa. Ma un sistema di lavoro basato più sulla lealtà che sul merito è destinato al fallimento.
Vengono in mente le parole di Angela Merkel che, alla presentazione milanese del suo libro “Libertà”, disse di non essersi mai trovata bene con Trump perché «è una persona che ha sempre mantenuto il punto di vista dell’immobiliarista. Per lui esistono solo vincenti e perdenti».
I vincenti, ovviamente, sono solo quelli che piacciono a lui. E guai a contraddire il capo.
Per leggere l’intera newsletter “Forzalavoro”, con i temi della settimana e gli appuntamenti in agenda, basta iscriversi (gratis) cliccando qui.
Arriva ogni lunedì, più o meno all’ora di pranzo.
Per segnalazioni, integrazioni, critiche e commenti, si può scrivere a [email protected]