Milano. Le fotografie delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib hanno un precedente italiano nell’inchiesta condotta dal settimanale Panorama nel giugno del 1997. Anche allora furono pubblicate fotografie con immagini di soldati che abusavano di persone tenute in custodia dall’esercito occupante. I responsabili di questi atti erano italiani, somale le vittime. Le foto risalivano al 1993, ai tempi della missione di pace Ibis in Somalia, ma lo scandalo scoppiò quattro anni più tardi, quando il magazine della Mondadori, diretto da Giuliano Ferrara, pubblicò le foto e condusse una clamorosa e al contempo sobria campagna giornalistica. A differenza delle torture in Iraq, denunciate dall’esercito americano e oggetto di un’inchiesta militare tre mesi prima che la Abc mostrasse le foto, le torture italiane in Somalia sono state scoperte dalla stampa e le inchieste che seguirono non hanno portato a nulla. Nessuno è stato condannato, nessuno è stato allontanato, nessuno è stato punito.
A ricordare la campagna di Panorama è l’allora vicedirettore Umberto Brindani, oggi direttore del settimanale Gente: "Nel giugno del 1997 si presentò a Panorama una agenzia fotografica pugliese che ci mostrò l’immagine di un ragazzo somalo nudo e sdraiato per terra, al quale alcuni soldati italiani avevano legato mani e genitali agli elettrodi. Accertammo la veridicità e pubblicammo la foto". Panorama non sparò lo scoop in copertina: "Fin dall’inizio non abbiamo ceduto al sensazionalismo delle immagini", dice Brindani. Una scelta che accompagnò tutta la campagna, tanto che nel mezzo del caos successivo, quando tutti si aspettavano chissà quale altra copertina shock, Panorama uscì con una cover sul centenario dello scrittore Robert Louis Stevenson, dal titolo "Ritorno all’isola del tesoro".
Al tempo della pubblicazione delle fotografie il governo era guidato da Romano Prodi e il ministro della Difesa era Beniamino Andreatta. Ma, a differenza di quanto ha scritto recentemente Claudio Rinaldi sull’Espresso, non fu una campagna para-berlusconiana contro il governo dell’Ulivo in carica, per un motivo molto semplice: la missione Ibis nacque e si concluse prima ancora della nascita dell’Ulivo (1992-94). Il governo dell’Ulivo, invece, avviò inchieste e commissioni di indagini ("formalmente fu ineccepibile", dice Brindani) eppure tutto finì "a tarallucci e vino", come scrissero gli imbarazzati giornali della sinistra a insabbiamento realizzato.
A quella prima fotografia ne seguirono altre. La più orribile fu quella dello stupro di gruppo di una donna somala. La foto mostrava alcuni soldati italiani che introducevano una bomba illuminante cosparsa di marmellata nella vagina della ragazza. "Anche in questo caso non sbattemmo la foto in prima pagina. La copertina di quel numero era completamente nera, salvo il titolo ‘Le nuove foto della vergogna’. Facemmo tutte le verifiche, compreso un terzo grado all’autore della foto, Stefano Valsecchi, che durò fino alle tre del mattino. Nello stesso numero, però, pubblicammo anche un altro servizio, con una foto che mostrava un gruppo di somali uccisi sul bordo di una strada. L’autore dell’altra foto, Stefano Bertini, ci disse in un’intervista che erano stati massacrati dagli italiani che si divertivano a sparare all’impazzata dalle loro jeep. Era una bufala, che scoprimmo solo qualche giorno dopo. Andammo subito in televisione a chiedere scusa. La settimana successiva il titolo di copertina fu ‘Verità e bufale’, nei servizi cercammo di spiegare che l’errore non doveva inficiare la veridicità delle altre torture documentate". Mentre la sinistra di governo era in imbarazzo perché un po’ non voleva insabbiare un po’ doveva difendere l’esercito, i bertinottiani chiedevano giustizia a voce alta. Brindani ricorda che Panorama fu duramente attaccato da alcuni parlamentari di destra, in particolar modo da Carlo Giovanardi, i quali intendevano difendere l’onore delle forze armate e si aggrappavano a quell’unica fotografia falsa per smontare l’intero scandalo. Panorama pubblicò anche una videocassetta, girata e montata dagli stessi militari della missione Ibis, nella quale non si vedevano atti di violenza ma si notava l’atteggiamento rambistico e il disprezzo per la popolazione locale di molti dei nostri soldati.
Otto procure della Repubblica aprirono un fascicolo d’inchiesta. L’Esercito avviò un’indagine disciplinare, condotta dal generale Francesco Vannucchi. La stessa cosa fece la Procura militare, con il procuratore generale Tonino Intelisano. Il Ministero istituì la Commissione Gallo. Il Parlamento affidò l’inchiesta a Libero Gualtieri. I due capi della missione Ibis, Carmine Fiore e Bruno Loi si autosospesero. Per un attimo sembrò che ci fosse la volontà di andare fino in fondo. Successe il contrario.
Le inchieste della magistratura ordinaria si sono perse per strada. La Commissione dell’esercito, col segreto militare, emise 12 provvedimenti disciplinari, ma non si sa nei confronti di chi né per quali abusi. La Procura militare, nel 1999, archiviò l’inchiesta per "omessa esecuzione di incarico e violazione delle consegne" nonostante l’accertamento di "azioni inopportune, gravi disfunzioni e sicure anomalie". La Commissione governativa guidata dal compianto professor Ettore Gallo, nella relazione finale di 114 pagine del 1998 scrisse di fatti "veri, verosimili o quantomeno da riscontrare", ma concluse di non avere, purtroppo, i poteri per farlo. L’indagine parlamentare censurò "i responsabili diretti" e chi aveva taciuto, ma non fece nomi né individuò colpevoli. Fiore e Loi furono reintegrati e poi promossi. L’unico condannato è stato Valerio Ercole, il militare che nella prima foto collegava gli elettrodi al somalo. In primo grado fu condannato per "abuso d’autorità" a 18 mesi. La pena fu sospesa e in appello, nel febbraio 2001, il reato fu dichiarato prescritto. L’America del generale Antonio Taguba e di Donald Rumsfeld è un’altra cosa.
13 Maggio 2004