Camillo di Christian RoccaIl partito democratico, quello vero (e Under God)Passeggiate Americane – 7

Il Partito democratico americano, modello ideale della sinistra italiana, non è soltanto il più antico partito d’America, ma nel mondo è anche la struttura politica che vanta la più lunga e radicata attività di organizzazione del consenso popolare. Noi europei facciamo sempre un po’ sorridere quando ci autovantiamo di poter contare su una storia millenaria e su una cultura ben più solida di quella americana. E’ vero per molti versi, ma quanto a storia, cultura e istituzioni politiche, gli americani hanno una coerente, costante e immutata tradizione bicentenaria, che è molto più raffinata rispetto a tutto ciò che è capitato nel vecchio continente nel medesimo periodo. E non è un caso, dunque, che la sinistra italiana guardi a questa esperienza consolidata per poter ripartire libera dalle gabbie ideologiche del passato.
Questa tradizione politica – che vive ancora oggi grazie al principio consuetudinario della common law – risale alla rivoluzione americana avviata con la rivolta del tè a Boston del 1773, alla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 e alla Costituzione degli Stati Uniti entrata in vigore nel 1789. Lo schema istituzionale di allora è ancora oggi un modello insuperato di divisione dei poteri, di rappresentanza popolare, di efficacia dell’azione di governo e di garanzie per i cittadini attraverso un sistema di pesi e contrappesi e di bilanciamento tra poteri che non ha eguali. Il Partito democratico americano nasce intorno a questo schema di stato federale, presidenziale, maggioritario e con un’idea di società – condivisa con il Partito repubblicano – fondata sulla libertà individuale, politica e di mercato. Il modello del Partito democratico è intimamente connesso con l’ideale del “sogno americano”. L’intervento pubblico e la programmazione centralizzata non sono considerate la soluzione migliore ai problemi della società, anche se si riconosce che possano servire a temperare le ingiustizie del capitalismo. Quest’ultima è la vera differenza sostanziale tra democratici e repubblicani, sebbene il “conservatorismo compassionevole” di George W. Bush abbia fatto capire a una parte del Partito repubblicano, almeno per ora, che l’intervento pubblico non è il male assoluto che limita sempre e comunque la libertà individuale, ma anzi può essere un mezzo per perseguire obiettivi conservatori.
Lo statuto del partito si chiama “The Charter & the bylaws of the Democratic Party of the United States”. Sono dieci articoli più cinque lunghe regole attuative. La filosofia politica del partito è contenuta nel breve, chiaro e conciso Preambolo scritto e adottato “under God”, cioè sotto l’ispirazione di Dio, come si legge alla dodicesima riga del testo. Comincia così: “Noi, Democratici degli Stati Uniti d’America… cerchiamo per la nostra nazione ciò che speriamo per tutti i popoli: libertà individuale in una struttura di una società equa, libertà politica in una struttura di società con consapevole partecipazione di tutti i cittadini”.
Il Partito democratico, così come quello repubblicano, è poco più che un comitato elettorale. E’ nato nel 1792 per iniziativa di Thomas Jefferson, come caucus congressuale, cioè come semplice assemblea di parlamentari, con l’obiettivo di far adottare il Bill of Rights (la Carta dei diritti) e in opposizione all’elitarismo del predominante Partito federalista. Sei anni dopo, il caucus di Jefferson è stato chiamato ufficialmente “Partito democratico-repubblicano” e, nel 1800, ha eletto proprio Jefferson quale primo presidente democratico degli Stati Uniti (il primo repubblicano, invece, è stato sessanta anni dopo Abramo Lincoln).
Nel 1824 varie scissioni interne hanno dato vita a una riorganizzazione del partito guidata da Andrew Jackson, il quale ha inaugurato l’era delle convention nazionali (le primarie sono del 1920). La prima convention si è tenuta nel 1832 e ha nominato Jackson per il suo secondo mandato presidenziale. La denominazione semplificata “Partito democratico” risale al 1844, mentre nel 1848 è nato l’organo di guida e indirizzo politico del partito: il Democratic National Committee (Dnc), eletto dalla convention nazionale e oggi presieduto da Howard Dean. Il Dnc si riunisce almeno un paio di volte l’anno. Entro il marzo successivo a ogni convention, il Dnc elegge il presidente e il Comitato esecutivo, che si riunisce almeno quattro volte in un anno.
Il partito ha tre compiti: 1) organizzare le elezioni primarie e la convention quadriennale; 2) assistere alle elezioni i candidati democratici alla presidenza e alla vicepresidenza degli Stati Uniti; 3) trovare i soldi per finanziare le campagne elettorali. A livello locale, lo stesso: i partiti statali, autonomi e indipendenti rispetto al centro, scelgono le procedure per eleggere i candidati democratici, raccolgono fondi e nominano attraverso le elezioni primarie i delegati alla convention nazionale.
Ai democratici, così come ai repubblicani, non ci si iscrive. Non esiste una tessera. Non ci sono le sezioni. La partecipazione alle scarne attività di partito è aperta a tutti i cittadini americani, i quali possono anche partecipare direttamente alla formulazione del programma. Per assumere ruoli di rappresentanza bisogna invece essere “elettori democratici”, cioè bisogna essersi registrati al voto come democratici. Negli Stati Uniti non si è iscritti automaticamente alle liste elettorali, come in Italia al momento del compimento dei diciotto anni. Per poter votare, è necessario prima registrarsi al voto (il modo più facile e veloce è online). Chi si registra al voto deve dichiarare se è un elettore democratico, repubblicano o indipendente. Questo, ovviamente, non impedisce di votare altrimenti il giorno delle elezioni (per fare un esempio: il principe delle tenebre neocon, Richard Perle, è ancora registrato come democratico), ma serve a stabilire chi ha il diritto di voto e chi ha titolo per votare alle elezioni primarie dei due partiti, almeno negli stati dove la partecipazione è circoscritta ai registrati dell’uno o dell’altro partito (in alcuni posti le primarie di partito sono aperte anche agli indipendenti o ai registrati a un partito concorrente).
Il ciclo politico del Partito democratico, dunque, è quadriennale e va di pari passo con ogni elezione presidenziale. La struttura del partito – sostanzialmente il presidente, un paio di vicepresidenti e i tesorieri del Democratic National Committee – durante i quattro anni di mandato si occupa di organizzare le elezioni primarie nei cinquanta stati (in alcuni casi direttamente, in altri assistendo gli organi statali) e poi di convocare la convention nazionale che incorona il candidato alla Casa Bianca. Ma il Dnc non è l’unico organo depositario del credo democratico, più che altro ha compiti organizzativi e di fund-raising, mentre la guida politica è del presidente degli Stati Uniti, se non è un repubblicano, oppure della leadership al Senato e alla Camera attraverso l’attività legislativa. I deputati e i senatori democratici, tra l’altro, hanno la propria organizzazione politica autonoma e indipendente dal Dnc. I senatori hanno il Democratic Senatorial Campaign Committee e i deputati il Democratic Congressional Campaign Committee. Entrambi non sono organi legislativi, ma strumenti di attività politica nel paese, la cui ragione sociale è di sostenere i candidati democratici alle elezioni del Congresso, ma anche di elaborare le strategie politiche e di raccogliere i finanziamenti per ottenere la maggioranza nelle due assemblee di Washington.
Ciascuno di questi organi del partito è libero di agire come vuole e solitamente procede d’amore e d’accordo, ma non è il caso di questi mesi di avvicinamento alle elezioni di metà mandato del prossimo novembre. Il presidente del Democratic National Committee è Howard Dean, un politico che per statura nazionale non può essere limitato a curare gli aspetti organizzativi e finanziari, come facevano i suoi predecessori. Dean è l’ex candidato presidenziale antiestablishment, che alle primarie del 2004 aveva cominciato con i favori dei sondaggi, il sostegno dei blog di Internet e dei pacifisti. E’ stato sconfitto dal senatore John Kerry, ritenuto dai potentati del partito come il candidato più adatto ad affrontare George W. Bush nel mezzo della guerra al terrorismo. Dean ha perso la sua battaglia con i big del partito, ma grazie al consenso tra la base è riuscito a farsi eleggere presidente del Dnc. Da questa posizione strategica ha deciso di cambiare i democratici dall’interno. Forte di un formidabile seguito su Internet tra chi si reputa estraneo alle lobby e ai giochi di potere di Washington – i cosiddetti netroots – Dean è riuscito ad allargare la base dei contribuenti del partito, ampliandola soprattutto tra quei piccoli finanziatori che sono sempre stati la forza del Partito repubblicano. In questo ciclo elettorale, cominciato dopo la sconfitta di Kerry, il Dnc ha incrementato del 3 per cento i contributi volontari, rispetto al meno 10 per cento della controparte repubblicana. Un po’ è merito di Dean, in parte è stanchezza degli americani nei confronti dei repubblicani e di Bush. Questo risultato positivo del Dnc resta comunque una percentuale inferiore rispetto al più 66 per cento di finanziamenti raccolti dal comitato democratico del Senato e dal più 45 per cento del comitato democratico della Camera. La ragione del maggior successo delle associazioni democratiche congressuali è di pura strategia politica. Il progetto di Dean non piace ai grandi finanziatori del partito e non piace nemmeno ai leader del Senato e della Camera. Questi sanno che a novembre basterà poco per riconquistare il Congresso. Per tornare maggioranza a Washington, i democratici dovranno strappare ai repubblicani 6 seggi al Senato e 15 alla Camera. I capi dei due comitati congressuali del partito, quindi, aspettano di investire il denaro negli ultimi mesi di campagna e sono decisi a spenderli esclusivamente nei collegi in bilico, dove i democratici avranno reali speranze di conquistare il seggio degli avversari. Dean la pensa diversamente, crede anzi che questo sia un errore che i democratici commettono da trent’anni per cui, a furia di investire soltanto dove ci sono reali possibilità di vittoria, sono scomparsi totalmente dal sud e da metà degli stati dell’Unione, rimanendo ancorati alle metropoli e agli stati sulle due coste.
Il presidente del Dnc ha elaborato un piano complessivo per irrobustire la presenza democratica in tutti e 50 gli stati, in modo da riuscire a costruire nel lungo periodo una maggioranza permanente, omogenea e diffusa su tutto il territorio. Il problema è che, per attuare questo piano, Dean ha già speso svariati milioni di dollari in Texas e in altri posti del sud e del midwest dove i democratici non hanno alcuna speranza di prevalere alle prossime elezioni di novembre. I leader al Senato e alla Camera credono che l’idea di puntare strategicamente su una maggioranza consolidata nel 2020 possa concretamente far perdere l’occasione di vincere nel 2006. Da qui le tensioni e le divisioni tra Dean e, in particolare, il deputato Rahm Emanuel, che guida la campagna dei democratici del Congresso. Il timore non è campato in aria. Le casse del Democratic National Committee, per esempio, sono state già praticamente svuotate da questo ambizioso progetto: ad aprile sui conti di Dean erano rimasti soltanto 9 milioni e mezzo di dollari, contro i quasi 45 ancora a disposizione dei repubblicani pronti per essere investiti al momento opportuno e dove serve.
Howard Dean sta provvedendo anche a cambiare il calendario delle primarie del partito e non tutti sono d’accordo. Le elezioni primarie americane non cadono tutte lo stesso giorno. Si comincia a gennaio e si finisce a primavera inoltrata. Dean ha deciso di anticipare le elezioni di due stati (ma non ha scelto quali), ponendole una tra il caucus dello Iowa e la primaria del New Hampshire, l’altra subito dopo. In base alla scelta dello stato, qualche candidato presidenziale potrebbe esserne avvantaggiato, ipotesi che lo statuto vieta ai dirigenti del partito. Più che un partito, questo modello è un percorso di selezione del candidato presidenziale attraverso le primarie, oltre che di elaborazione della Platform, il programma ufficiale ispirato al Manifesto elettorale della tradizione politica britannica. La Platform è adottata dai delegati della convention una volta ogni quattro anni. La prima Platform è del 1840, uno stringato documento programmatico di seimila battute. L’ultima, quella del 2004 intitolata “Forti in casa, rispettati nel mondo”, è un libretto di una quarantina di pagine. Il processo di adozione del programma non è complesso. Nella primavera precedente la convention – che si tiene sempre in estate – il presidente del Dnc nomina un comitato di quindici persone con il compito di scrivere una prima bozza del testo. Entro la metà di giugno qualsiasi cittadino americano può fare proposte e chiedere di essere ascoltato in una delle sedute che il Comitato apre al pubblico. La bozza finale viene consegnata al Platform Committe della convention (183 membri) che la discute, la approva e la sottopone al voto dei delegati, solitamente nel secondo giorno del congresso (il terzo è dedicato al discorso del candidato vicepresidente e il quarto a quello del candidato alla Casa Bianca).
Lo statuto del Partito democratico prevede anche un altro momento istituzionale oltre alla convention, anche se non obbligatorio. Il Democratic National committee può convocare una Conferenza nazionale del partito tra le due convention, vale a dire ogni due anni e prima delle elezioni di metà mandato. Il partito è anche un arcipelago di associazioni tematiche, tutte rappresentate dentro il Dnc: l’associazione dei governatori democratici, l’associazione dei sindaci del partito, degli eletti locali, dei giovani democratici, delle donne, degli studenti universitari, degli anziani. C’è anche un Comitato legislativo che assiste con servizi strategici e finanziari gli eletti e i candidati locali del partito.