Blow-UpIl coniglietto con il papillon fa ancora parlare di sé

Ci si potrebbe domandare come mai al mitico Hugh Hefner, il magnate di Playboy, sia venuto in mente di allestire un sito web dove archiviare tutti i volumi pubblicati dal 1954 al 2007 e renderne po...

Ci si potrebbe domandare come mai al mitico Hugh Hefner, il magnate di Playboy, sia venuto in mente di allestire un sito web dove archiviare tutti i volumi pubblicati dal 1954 al 2007 e renderne possibile la consultazione virtuale. L’azienda ha pure pensato di arricchire l’offerta editoriale con video e documenti inediti e di potenziare il suo carattere interattivo attraverso applicazioni per piattaforme multimediali come Ipad, allo scopo di sfruttare al massimo le risorse della comunicazione digitale. Tutto ciò però non muta la sostanza del risultato e non cancella il nostro stupore: in fin dei conti la versione online di Playboy non è altro che la simulazione elettronica di quel modello cartaceo tradizionale di cui Internet ha accelerato il declino.

La domanda si fa ancora più interessante se si pensa a come tanto la pratica del sesso quanto la diffusione dell’immaginario erotico, nel mare magnum del Web, si leghino a forme di piacere radicali ed estremiste che tendono a produrre il massimo risultato prestazionale con il minimo sforzo e a costo zero.

La svolta “hardcore”, del resto, non è una novità. Durante la fase di crescita del consumo di massa, periodici come Penthouse, Oui, Maxim, ma sopratutto Hustler, furono i promotori di questo processo e obbligarono la creatura di Hefner a un progressivo riassetto del target: ampliamento dei contenuti non di genere e ricerca di un pubblico di livello culturale più elevato. Il lettore-tipo coincise con gli esponenti delle classi borghesi-liberal che da una parte desideravano sollazzarsi con le giovani e avvenenti playmates del mese, ma dall’altra volevano vedere confermati il proprio stile di vita e il proprio status.

Visto e considerato, allora, che i futuri orientamenti del mercato e della grande utenza erano stati presagiti in tempi non sospetti, una strategia commerciale in palese controtendenza farebbe ancora più discutere. Tuttavia, a ben guardare, il caso in questione va ripensato alla luce di due ragioni finora non considerate: una, abbastanza intuitiva, riguardante il valore”storico-culturale” dell’impresa, l’altra, meno diretta ma molto importante, legata all’identità e alla funzione delle immagini fotografiche.

Innanzitutto, se è vero che Playboy non è stato, almeno dagli anni ottanta a oggi, un semplice passatempo per maschi-adulti in coda dal barbiere, ma un grande affresco della contemporaneità, in grado interpretarne i miti e i riti, avrebbe detto Gillo Dorfles, attraverso le lenti d’ingrandimento del cinema, della letteratura, filosofia, arte, politica, economia, merita di essere preservato e tutelato come parte del patrimonio culturale nazionale e pertanto non va nascosto fra le scartoffie delle librerie private, bensì divulgato a tutti, e soprattutto alle nuove generazioni che parlano la lingua leggera e dinamica della comunicazione digitale.

Ma poi, e vengo così alla seconda ragione, parlare di Playboy, in fondo, significa parlare proprio della fotografia di Playboy, che non è una banale appendice illustrata di “nudi” d’autore, bensì il condensato di uno stile, di un linguaggio, addirittura di una filosofia dell’erotismo.
Ma, a differenza di quanto potremmo credere, la fotografia dell’eros non è l’esternazione delle pulsioni voyeuristiche e feticiste del pubblico, perché in fondo queste sono il movente preliminare di qualsiasi pratica fotografica: l’obiettivo infatti è un buco della serratura e l’immagine finale è un affetto, un’emozione da custodire gelosamente. Lo sguardo del fotografo, per sua natura penetrante, provoca sempre nell’osservatore una forte sensazione di realtà. Anche se non avviene il contatto plastico, concreto con la cosa stessa, c’è l’immagine, la sua traccia visibile a farne le veci. Tale effetto psicologico, tale eco del mondo esterno, si protrae in una tensione costante fra realtà e finzione, in un gioco perverso e attraente che nell’esibizione del “nudo” trova un suo momento culminante. Possessione, indiscrezione, svelamento e, al tempo stesso, registrazione sono qualità intrinseche al medium fotografico, ma trovano nell’erotismo fatto immagine un potentissimo detonatore. Poi, naturalmente, possono variare i contesti e gli stereotipi: dal corpo fotografato in modo crudo, schietto, in una domestica banalità, possiamo passare a visioni fantastiche, da sogno, che ci fanno evadere dal grigiore della quotidianità.
L’estetica fotografica di Playboy è riuscita, come dire, a unificarli all’insegna di un protocollo stilistico ben rappresentato dalla parola “softcore”, indice di gusto, di equilibrio e di prevenzione dagli eccessi dell’ostentazione fine a se stessa. Hefner ha pensato a una fotografia che non accelerasse la corsa al recupero della realtà, ma che al contrario provvedesse a sospenderla in una specie di limbo evanescente, di territorio ambiguo, sfumato, indefinito in cui rimanesse un ampio margine di libertà per l’immaginazione creativa. Questa softness sensoriale, questa lenta smaterializzazione fotografica del desiderio, ha, in questo modo, concesso al piacere di dilatarsi per vie private e silenziose, dando all’eros un valore più personale, autentico, indimenticabile. Nell’epoca dell’estasi elettronica, istantanea, totale, del “bordello senza muri” profetizzato da McLuhan, una pausa dedicata alla visione di Playboy può farci riguadagnare un’emozione perduta.

Il sito dell’archivio è: www.playboyarchive.com