Il collasso della sinistra italiana corre su due binari paralleli: il primo breve e ad alta intensità di sofferenza, quello socialista; il secondo, quello comunista, talmente lungo da non consentire ancora la fine d’una corsa la cui utilità ormai sfugge. […]
Parallelamente, il PCI, annichilito dalla dissoluzione dei suoi riferimenti, «sconfitto dalla Storia», entra negli anni Novanta in quel tunnel in cui più o meno si trova ancora oggi. Persi i suoi terminali nel lavoro, scivola nell’autoreferenzialità, chiuso a riccio su se stesso, a riorganizzare se stesso, a cercare un nome sempre sbagliato e sempre sostituito per ridefinire se stesso[…]. La ritirata dal lavoro è la ritirata dal Nord.
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Articolo a firma Gabrio Casati pubblicato su Il Riformista il 15 gennaio 2008
Ezio Mauro, in un bel reportage su la Repubblica di venerdì scorso, ha detto con chiarezza che la questione della sicurezza sul lavoro attiene all’essenza stessa di una democrazia, di un sistema istituzionale che, se vuole fregiarsi del titolo di democratico, non può che porre il rispetto dei diritti e delle leggi preposte a tal scopo al vertice delle sua azione. Tuttavia, in politica tutto, per quanto in maniera contorta, ha una spiegazione; e la ragione di questo vomitevole e stanco rincorrersi tra morti e dichiarazioni, tra bare e solenni promesse, è che il Parlamento alla prova dei fatti può permettersi di ignorare la questione, perché nessuna maggioranza di governo viene meno sulla conta dei morti sul lavoro.
e gli operai edili irregolari che a migliaia cadono dalle impalcature contano meno dell’essenza stessa, dell’ossessione di ciò che siamo stati: operai metalmeccanici.
Tutte le esistenze hanno lo stesso valore, ma i simboli hanno una precisa scala di priorità. Torino, uno dei vertici del triangolo industriale, lo scenario delle lotte operaie dei tempi che furono, il Nord delle fabbriche, gli operai, l’acciaio. C’è tutto ma proprio tutto ciò che ha definito la sinistra in questo Paese, che sta dentro di noi, volenti o nolenti, ciò che attiene alla nostra memoria, a quei riflessi incondizionati del pensiero di cui il vivere la politica abbonda. Il Governo di centrosinistra, il primo Governo della storia repubblicana con tutta la «sinistra» organicamente presente, non ha fatto nemmeno una piega. Una maggioranza che non esiste al Senato e che per qualsiasi votazione entra in letale fibrillazione non ha avuto nemmeno uno sbandamento.
Il Presidente della Camera [Fausto Bertinotti, nda] va a Torino ai funerali e viene contestato, i sindacati confederali vengono additati dagli operai come sostanziali corresponsabili, i dirigenti della fabbrica si comportano come spregevoli padroni del vapore e la sinistra italiana nel suo complesso non va oltre le manifestazioni di sconcerto, cordoglio e solidarietà, già dimenticate un mese più tardi. Dopo aver passato quindici anni a negare colpevolmente, per ragioni di squallida opportunità, la fine del conflitto – di ogni conflitto, tranne che quello stupido e tribale con Berlusconi – e l’evaporazione del lavoro operaio, la cruda realtà è che il Governo di centrosinistra, del PD a vocazione maggioritaria e dei sindacati al fianco, può cadere sul rinnovo del contratto del pubblico impiego e non sull’ecatombe operaia.
La sinistra italiana entra in vera fibrillazione se i dipendenti pubblici non ricevono il terzo adeguamento salariale in tre anni. E il lavoro? E la produzione e i conflitti che naturalmente sorgono all’interno di sistemi di distribuzione di risorse scarse? E le imprese gonfie di utili con i dipendenti meno pagati d’Europa? Quello dopo, magari. Senza urtare troppo Confindustria e non dispiacere agli imprenditori magari nella nuova definizione di «lavoratori che rischiano» (Veltroni); prima occupiamoci dei nostri, prendiamoci cura dei fannulloni, prima occupiamoci di Roma.
E non interessa soprattutto il come. Che è certamente riconducibile a imprese intelligenti (imprese, cioè comunità organizzate di azionisti, management e lavoratori) e imprenditori capaci di innovare e attuare strategie di successo. Ma riconducibile anche a continua compressione dei salari, continua riduzione dei costi (compresi quelli sulla sicurezza), esternalizzazione di funzioni non strategiche con precarizzazione del lavoro e a quell’eccezionale meccanismo parafamiliare di autosfruttamento che va generalmente sotto il nome di piccola impresa.
Cosa resta dunque? Quietate in fretta le parole e tacitato il grande circo della mestizia per l’ennesima morte sul lavoro, rimane, come un macigno, la Questione Settentrionale. Rimane quella imprescindibile necessità, per qualsiasi partito, ma più di tutti per un partito di sinistra, di comprendere la produzione e il lavoro. Ovvero di comprendere il Nord, cosa sia diventato e come sia cambiato. Rimane la necessità di smetterla con la manfrina dei lacci e laccioli da rimuovere come unica ricetta per la Questione Settentrionale, dimenticando che qui, in assoluto, nascono fenomeni, imprese, conflitti e nuovi bisogni.