Eta (senza Beta)Paradossi sull’ascolto perfetto

Sulla «Repubblica» del 3 giugno è uscita un’anticipazione dell’ultimo libro di Alex Ross (Senti questo, Bompiani). Vi si discute delle mirabolanti possibilità offerte dalle ultime tecnologie per l’...

Sulla «Repubblica» del 3 giugno è uscita un’anticipazione dell’ultimo libro di Alex Ross (Senti questo, Bompiani). Vi si discute delle mirabolanti possibilità offerte dalle ultime tecnologie per l’ascolto della musica, che consentono di correggere a piacimento esecuzioni imperfette, e creare addirittura «intere orchestre dal nulla». La posizione di Ross non è in toto avversa all’uso di tali mezzi. Al contrario, egli ricorda, e giustamente, come le varie forme di registrazione, dalle primitive alle più evolute, abbiano non solo esteso enormemente la possibilità dell’ascolto musicale, ma fornito a molti musicisti, precedentemente tenuti ai margini del mondo musicale, la possibilità di farsi conoscere. Tuttavia nel brano diffuso dal quotidiano aleggia anche l’inquietudine per «un mezzo radicalmente virtuale, un’arte senza volto». Il che è un bel paradosso, se si pensa che, al contrario di quanto accade per gli altri linguaggi artistici, che possono essere fruiti senza intermediari, la musica (almeno per chi non sia in grado di leggerla, cioè la parte indiscutibilmente maggioritaria di coloro che la amano) ha bisogno di un esecutore, di una persona in carne e ossa, sottoposta, come accade a ogni tipo di performance, a tutti i rischi di errore. Così accade che l’arte più astratta e insieme, nell’esecuzione, più fisica, la musica, si veda espropriata di una sua componente di fascino e di imprevisto, in ultima analisi di improvvisazione.
Non parlo di esecutori rock o jazz, cui Ross fa riferimento, perché non ho competenza su quei settori. Ma nel campo della musica cosiddetta classica il paradosso induce a qualche riflessione. Tempo fa, discutendo con un amico, valente pianista e ottimo storico della musica, gli domandai quali fossero i suoi pianisti preferiti. La risposta mi lasciò interdetto solo per qualche secondo; amo, mi disse in sostanza, i pianisti che sbagliano. Proposizione ancora una volta paradossale, ma nella sostanza del tutto giusta; gli esecutori (pianisti, direttori, violinisti), che mi hanno colpito di più non sono mai stati senza macchia, neppure nelle registrazioni (prima che si affacciassero gli ingegneri del suono). Siamo tutti ossessionati dal suono puro e senza alone, dalla ricerca dell’esecuzione perfetta, ma si tratta di pretese assurde e sostanzialmente antimusicali. Personalmente mi è capitato una sola volta, parecchi anni fa, di assistere al concerto di un pianista che, durante il concerto, non commise il benché minimo errore, e di averlo trovato contemporaneamente un esecutore smagliante: si trattava dell’allora pressoché sconosciuto Grigorij Sokolov, oggi unanimemente considerato uno dei più grandi pianisti in attività. Ma con lui, e con pochi altri, si è in presenza di mirabili eccezioni. La musica è la più evenemenziale e irripetibile delle arti. Quella esecuzione non ritornerà più, non solo per l’ovvio motivo che è legata a un’occasione specifica, ma perché anche noi non saremmo gli stessi, in termini di capacità di ascolto, anche se, per un assurdo, l’esecuzione fosse la stessa (per prova, si ascolti lo stesso disco in giorni, tempi atmosferici, umori personali diversi).
Non vorrei si pensasse che sia contrario all’ascolto della musica in qualsiasi forma registrata (il che sarebbe una sciocchezza madornale). Solo, per quanto possibile, dobbiamo trasformarci in ascoltatori attivi. Il che può significare tante cose, ma almeno queste: che la musica non si può ascoltare di continuo, né solo tramite gli ormai innumerevoli mezzi di registrazione, perché si ottunde la nostra capacità di esserne, alla lettera, impressionati; che come in natura non esiste il suono puro, perché ogni suono ci arriva “sporco”, così non dobbiamo giudicare un’esecuzione su qualsiasi supporto in funzione dell’esclusivo nitore sonoro; che non dobbiamo farci ammaliare dalle sirene delle case discografiche, capaci di imporre esecutori in base a pure logiche di mercato (qualcuno ricorda la feticistica esecuzione dell’Orfeo di Monteverdi, con Harnoncourt e strumentisti in abiti tardocinquecenteschi, come ciò garantisse la fedeltà perfetta al testo?) Anche il verificarsi di una sola di queste condizioni può farci comprendere in modo più avvertito la musica che ascoltiamo.

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