Ma perché fotografiamo proprio tutto?
Forse per difenderci dal mondo.
La prima risposta che viene in mente è che si vuole avere un ricordo, come se fosse pressoché impossibile ricordare senza l’aiuto di una fotografia.
Ma cosa ricordiamo guardando poi la fotografia-ricordo?
L’esperienza sensoriale di un certo evento o l’atto stesso del fotografare?
In un certo senso scattare una foto quando si visitano nuovi posti, si va a concerti ecc. mi ricorda un po’ quelli che si accendono una sigaretta durante un’occasione sociale o emotivamente impegnativa.
Nel “Manifeste photobiographique” di Gilles Mora e Claude Nori la fotografia “trova la sua giustificazione d’essere non più tanto come oggetto quanto come atto” .
E per Susan Sontag “La fotografia è soprattutto un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere”.
La lente della macchina fotografica diventa una protezione, una maschera, un filtro che si frappone fra noi e l’esperienza diretta, fisica e totale della realtà.
Un filtro che attutisce le emozioni in linea con il nostro imprinting culturale, secondo il quale è più accettabile raccontare e parlare delle emozioni che non viverle.
La macchina fotografica diventa uno strumento di metabolizzazione, che ci permette una fruizione differita e attutita delle emozioni: “quello che sto vivendo adesso lo fotografo per non dimenticarlo” in realtà vuol dire “così posso dimenticarlo con la scusa che ne rimando la sua contemplazione in un secondo momento, anche se questo momento non dovesse mai arrivare”.