Coincidenze, così le chiamano, ma più onestamente non sono altro che conseguenze logiche. La prossima manovra finanziaria prevedere l’accorpamento tra i comuni con meno di mille abitanti: una conclusione ovvia, tenere in piedi municipi fatti di quattro gatti non ha molto senso, per quanto sia servita l’emergenza debito pubblico a chiarire la faccenda. Le lotte campanilistiche se le tengano i soliti noti, manco fossero realmente i confini geografici a stabilire il senso di appartenenza ad una comunità. Nel mentre è arrivato il caldo di quelli umidi e afosi che trasudano tutta la loro prepotenza dai campi di mais passati in rassegna in questi giorni da mietitrebbie e trattori. Sembrano due storie diverse, non lo sono.
Tra i comuni destinati a non rimanere unici c’è San Zenone al Po, spalmato lungo la riva sinistra del fiume che taglia in due la Val Padana. Ci è nato Gianni Brera, l’8 settembre 1919. Nella sua corporatura conteneva tutto un mondo che è irrimediabilmente cambiato. San Zenone è come quei tanti paesi rivieraschi che con il tempo si sono trovati abbandonati da chi è migrato o in città o in altri centri, lasciando ai restanti il compito di fare i conti con se stessi. Brera c’è nato, ci è cresciuto divenendo un figlio legittimo del Po, che per un altro cantore del Grande Fiume, il Giovannino Guareschi, comincia in realtà a Piacenza. Ma non è appunto di confini geografici che si parla.
E ci tornava spesso, giornalista solidamente trapiantato a Milano per raccontare lo sport alla sua maniera, complessa e solida come una buona aspirata di pipa. Che fosse San Zenone o Spessa o Arena: di mezzo c’è sempre il Po pavese.
Intervistato da Paolo Guzzanti nel ’90 sulla Stampa, raccontò il Natale trascorso alla Pro Loco di Spessa:
Abbiamo fatto l’alba. È un luogo straordinario, sul fiume. Fuori c’è la balera, e un acquario con tutti i pesci del Po. Grande cucina, grande bevuta. Gente amica, gente timida. Io ho portato un panettone vero, di quelli da cinque chili, fatto in pasticceria. Io lo faccio così, il Natale: di notte, nella nebbia, con i miei amici contadini. Gente antichissima. Contadini nobili. Come i baroni del Sud. Qui baroni non ce ne sono e così la parte dei nobili l’hanno fatta i contadini. Gente che ama la caccia, lo spiedo, i cani, la nebbia. Gente che sa schissà l’uga, per intendersi: cioè spremere l’uva e fare il vino. Dico grandi contadini, mica roba da ridere.
Gran cantore di balle, come quando prendeva in giro gli ospiti che intratteneva a cena attorno ad un tavolo milanese. Si dava arie di catturare cinque-sei-sette-otto-nove anatre legando una noce di lardo alla corda: l’anatra lo mangiava e non digerendolo, lo espelleva immediatamente per il buco del sedere, rimanendo infilzata, mentre una seconda anatra cascava nella trappola. I borghesi di città lo guardavano con stupore, convinti che fosse tutto vero.
Nella sua sterminata cultura, Brera tirò le fila storiche del Po e dell’Italia:
Ho scritto e penso tuttora che l’Italia non sia mai nata perché Po non era un fiume, altrimenti Venezia l’avrebbe risalito più in forze – dico con navi idonee – e avrebbe sottratto la Padania alle ricorrenti follie papaline e alemanne del Sacro Romano Impero.
All’occhio che ci vede veggenze leghiste, va di diritto il dito che José Mourinho mercoledì sera ha riservato al vice di Guardiola: qui si parla di letteratura e storia. E contadini: identità che sopravvive al di là dei confini geografici.