Per misurare il livello di tribalismo in cui siamo immersi, almeno una volta alla settimana mi sottopongo alla rituale tortura del “talk” politico. Ieri sera, doppia razione, con Formigli su La7 e Santoro a galleggiare sulla rete e sulle tv private locali.
A parte il solito grupetto di giornalisti faziosi, Da Milano, Mulè, Bechis, talmente abituati a parlarsi addosso che non importa davvero chi siano e cosa dicano; ne tiri fuori dal mazzo tre a caso e li inviti in trasmissione come condimento sgradevole ma necessario allo spettacolo. A parte il consolidato format costruito su servizi esterni che analizzano situazioni particolari e dettagliate sui quali gli ospiti in studio sono chiamati a fare commenti di carattere generale senza argomenti precisi e senza dati cui far riferimento. A parte l’arciconosciuto gioco alla delegittimazione reciproca; ieri sera Bondi contro Costamagna su tutti. A parte le consuete interruzioni dei conduttori che non fanno mai finire di parlare l’ospite, a sottolineare come in televisione sia importante fare domande e provocazioni, ma quasi mai interessante ascoltare le risposte (tant’è che su La7 pure uno corazzato come Ferrara a un certo punto si è spazientito).
A parte tutto questo, trovo che il livello di tribalismo più preoccupante si è raggiunto quando a intervenire sono stati i giovani. Quelli dei movimenti indignati in collegamento da Cannes su La7 e la ragazza espressione della “società civile” in studio da Santoro. Frasi fatte e slogan, urla e aggressività hanno contraddistinto questi interventi riproducendo, di fatto, il modello di comunicazione oggi imperante nel Paese quando si deve parlare di politica. Lo dico, non senza qualche ritrosia, proprio con uno slogan: urlo, dunque sono. Ovviamente, vista la scarsa esperienza di questi improvvisati attori, manca l’appeal e il mestiere di chi utilizza sistematicamente i media come una clava contro gli avversari da vent’anni o più. Ma non cambia la sostanza. In particolare, la ragazza da Santoro, messa in discussione con Diego Della Valle, non aveva alcuna intenzione di dialogare con il proprio interlocutore e c’è voluto un bell’esercizio di pazienza da parte dell’imprenditore per esprimere il proprio pensiero e ricordare che oggi imprese e lavoratori hanno i medesimi problemi, sebbene su scale differenti (se avete voglia di vedere o rivedere il “dialogo” tra Della Valle e la ragazza, cliccate qui. Se avete poco tempo o poca pazienza vi consiglio di saltare direttamente attorno al minuto 50).
Finito il programma, ho spento la televisione e sono andato a dormire, ma la scorpacciata serale di talk-show politici mi aveva talmente appesantito che non riuscivo a prendere sonno. Così mi sono messo a pensare.
Per prima cosa, ho analizzato la mia delusione di fronte allo spettacolo cui avevo appena assistito. In televisione (che sia fatta su reti nazionali, locali, o sul web) non c’è nulla di nuovo per affrontare il discorso politico e portare una vera critica di sistema. La televisione si è mangiata tutto. Non sono un apocalittico, sia ben chiaro, ma penso che i tempi televisivi non siano adeguati: incalzano gli interlocutori e annullano la possibilità affrontare con ragionamenti lucidi e approfonditi argomenti di comprovata importanza. E perfino chi si affaccia sulla scena pubblica per la prima volta è talmente abituato ai ritmi e ai linguaggi della televisione che non riesce a distaccarsene. Prima di parlare (o di urlare, se si vuole) occorre avere qualcosa da dire. Occorre avere un’educazione ed una conoscenza minima di tutte le dinamiche che investono il proprio discorso (Gramellini in questo senso ci va giù pesante, ma in parte mi trova d’accordo).
Poi ho pensato alla necessità dell’ascolto. Saper ascoltare è un’abilità che abbiamo messo da parte, riposta insieme a quelle capacità sociali squisitamente umane che oggi vengono sepolte dal tram tram quotidiano. Circondati da tutte le voci, i suoni e i rumori che tentano di sovrastarsi l’un l’altro, preferiamo tapparci le orecchie piuttosto che identificare e riconoscere la fonte, ma la capacità di ascoltare è fondamentale anche per riconoscere l’altro come individuo, ed è solo nella relazione civile tra individui che possiamo costruire un dialogo utile alla nostra società. Necessità di ascoltare e riconoscere l’altro, dunque. Soprattutto da parte di chi è (o si accinge ad essere) parte della classe dirigente, perché le decisioni – qualsiasi decisione, più o meno importante – possono essere prese solo dopo un’analisi non ideologica e non partigiana della realtà, dopo aver ascoltato e riflettuto sulle varie posizioni in gioco.
Ascolto, dunque sono. Sono, dunque faccio. E quello che faccio, lo faccio per il mio paese.