Sulla Repubblica di una decina di giorni fa è comparsa un’intervista di Simonetta Fiori a Carlo Ossola, a proposito dei Libri d’Italia (1861-2011), un’antologia, pubblicata dalla Treccani e dallo stesso Ossola curata, delle letture che, in centocinquant’anni, hanno (o avrebbero dovuto fare) gli italiani. Il curatore è celebre italianista che da tempo insegna Letterature moderne dell’Europa neolatina al Collège de France, ed è quindi in posizione privilegiata per effettuare una scelta così difficile. Prima di discutere la selezione, vale la pena di leggerne i criterî, così come essi vengono esposti da Ossola all’intervistatrice (premetto che mi baso appunto sul testo dell’intervista, non avendo ancora preso visione dell’antologia): «io», afferma, «non ho curato una storia della cultura intellettuale in Italia, ma volevo rappresentare la memoria condivisa degli italiani così come si è formata nel corso di centociquant’anni [e] ho selezionato quegli autori la cui lettura pubblica -avvenuta principalmente nella scuola media- ha alimentato una coscienza collettiva che si è trasmessa di generazione in generazione». Il proposito è espresso chiaramente, ed è più che rispettabile. Ci tornerò tra breve. Ma intanto vediamo chi sono gli autori o i testi proposti (li elenco alla rinfusa, più o meno come compaiono nell’intervista): Ungaretti, Deledda, Pascoli (con l’antologia Fior da fiore), Ada Negri, Ida Finzi, Barzini, Capuana, Gozzano (dalle letture del «Corriere dei Piccoli»), Cuore, Pinocchio, il manuale di Artusi, Le tigri di Mompracem, il Ricettario industriale di Italo Ghersi, Il bel paese di Stoppani, la Costituzione, Primo Levi, Calvino (con Le città invisibili).
Pare evidente che alla base della scelta ci sia una presa di posizione (anche e lodevolmente) politica: testi come Il bel paese, Cuore (entrambi antileghisti avant la lettre), per non parlare della Costituzione, oltre a essere effettivamente memoria condivisa di molti italiani, puntano il dito precisamente contro l’insulsaggine e la miseria culturale leghista (di cui in questi giorni abbiamo visto prove esimie). Se si deve parlare di politica, direi perciò che la scelta di Ossola obbedisca alle logiche di quella interna, piuttosto che di quella estera. È vero che Pinocchio e Cuore sono stati tradotti nelle principali lingue straniere e hanno dato l’esca a innumerevoli rielaborazioni (anche non letterarie); per non parlare di Primo Levi e Calvino, autori tra i più studiati e tradotti fuori del nostro paese. Tuttavia Ossola è chiaro al riguardo: «quando devo fare il bilancio di 150 anni, le ragioni della storia sono più importanti di quelle del desiderio. Un testamento è efficace se lascio quello che è in mio possesso, non ciò che ho desiderato». La memoria di cui si tratta è perciò quella degli italiani, non quella che il Paese trasmette fuori di sé; resta che anche quest’ultima, direi, sarebbe degna di considerazione. Detto ciò (e premesso che sono coetaneo di Ossola), non so se il mio sia un caso isolato: certo è che se, in anni lontani, ho letto sia in famiglia che a scuola, Collodi e De Amicis, mai mi è stato proposto, in alcuna delle due sedi, Stoppani, Salgari (e dire che sia mio nonno paterno che mio padre erano legnaghesi, vicinissimi alla Verona di quest’ultimo), né Artusi (che ho letto, non sistematicamente, ma divertendomi assai, solo ben più tardi). Per non parlare del Ricettario industriale di Ghersi: andando anche indietro nel tempo, ho buone ragioni per pensare che se i miei amatissimi nonni, paterno e materno, con formazioni e caratteri tra loro del tutto diversi, avessero sentito nominare quel titolo e quel nome come rappresentativi della memoria condivisa degli italiani, sarebbero rimasti quanto meno perplessi. Bisogna insomma dire che, se senz’altro apprezzabile è lo sforzo di abbattere le tradizionali paratie tra le due culture, separazione assai giustamente stigmatizzata da Ossola, si potevano anche in questo settore fare scelte meno peregrine, magari proprio, a parte il presente Levi, quella dell’escluso Gadda, che con piena legittimità e inarrivabile prosa, costituisce, appunto con Levi, una magnifica eccezione alla inestirpabile vocazione alla “bella letteratura” (tutt’altra cosa dalla letteratura bella) della nostra cultura.
Tirando le fila di questo provvisorio discorso si può dire che Ossola (il quale giustamente ricorda che l’inclusione di alcuni autori non implica l’esclusione voluta di altri, ma obbedisce ai principî su ricordati) sia fedele a una storia effettuata sul versante della ricezione e della lettura, invece che su quello della produzione e della scrittura. Per questo non avrà incluso i testi di grandi storici dell’arte (un settore in cui la nostra cultura conserva un invidiabile primato): due nomi su tutti, Giovanni Morelli e Giovan Battista Cavalcaselle. Anche se non si può inserire tutto, e ogni scelta, purché coerente, è legittima, è un peccato; precisamente perché si tratta di testi di autori italiani scritti dapprima in altra lingua (inglese e tedesco) e poi tradotti in italiano, entrambi di grande successo, essi avrebbero potuto degnamente figurare. Aggiungerei, in questo caso con vero dispiacere per l’assenza, i grandi librettisti: Arrigo Boito (per se stesso e per Verdi) e la coppia Illica-Giacosa (per Puccini). Se c’è un campo in cui la memoria degli italiani si è riconosciuta compatta, questo è il melodramma. La sua mancata presenza è dolorosa su entrambi i fronti; perché se esso è lingua che ha unito gli italiani nel tempo, è anche uno dei contrassegni più riconoscibili della nostra cultura all’estero.
15 Gennaio 2012