Doug Rickard – #82.948842, Detroit, MI. 2009. 2010
Nel 2007 sulle mappe di Google sono comparsi degli omini arancioni, trascinandoli nella via desiderata la mappa si trasforma e sei catapultato nella strada, almeno virtualmente.
Puoi girarti di 360°, andare avanti e indietro, zoomare, vedi tutto come se effettivamente stessi camminando per strada…sui trampoli, infatti il punto di vista è a circa due metri di altezza.
Google Street View in soli 5 anni ha mappato le strade di moltissime nazioni, fra cui tutto il nord America, parte del Sud America, l’Europa, Il Sud Africa, l’Australia e il Giappone.
Per consentire questo turismo virtuale le strade del mondo sono state percorse dalle “Google Cars”, sul tetto delle quali è stata posizionata una macchina fotografica molto particolare con 11 obiettivi.
Google possiede poi un software molto sofisticato che per rendere le immagini adatte alla pubblicazione oscura i volti dei passanti e le targhe delle macchine così che non siano identificabili a tutela della privacy.
Quello che vediamo in Google Street View non sta accadendo in tempo reale, è un archivio, un archivio di immagini, di fotografie, scattate senza “intenzione” altra se non quella di mappare il territorio.
Fatto sta, che questa possibilità di andare in giro per il mondo stando seduti comodamente in poltrona ha sollecitato la curiosità di molti e c’è chi ne ha fatto dei lavori, “appropriandosi” delle immagini di Google come dei moderni cyber street photographers.
Fra questi vorrei parlare dell’americano Doug Rickard, studioso di storia e sociologia le cui fotografie del progetto “A new American Picture” sono state esposte al MOMA di New York e di Michael Wolf, fotografo tedesco, che con “Street view: a series of unfortunate events” ha avuto una menzione d’onore nell’edizione 2011 del World Press Photo.
Doug Rickard – #83.016417, Detroit, MI. 2009. 2010
Doug Rickard – #29.942566, New Orleans, LA. 2008. 2009
Doug Rickard – #40.805716, New York City, NY. 2009. 2011
Doug Rickard – #120.074209, Fresno, CA. 2009. 2010
Entrambi hanno esplorato il pianeta attraverso Google Street View.
Rickard ha cercato le aree povere americane con il più alto tasso di disoccupazione degli Stati Uniti, “A new american picture”, perchè nel suo lavoro sono evidenti i richiami alla street photography americana degli anni ’70, enfatizzati dai tagli panoramici e dagli interventi sulla palette cromatica dei colori.
Wolf invece ha scandagliato le strade alla ricerca delle immagini che hanno inconsapevolmente catturato momenti pericolosi, bizzarri, inaspettati.
Michael Wolf – A Series of Unfortunate Events
Michael Wolf – A Series of Unfortunate Events
Michael Wolf – A Series of Unfortunate Events
Michael Wolf – A Series of Unfortunate Events
Michael Wolf – A Series of Unfortunate Events
Entrambi una volta trovato il frame che li interessava procedevano fotografandolo con una “vera” macchina fotografica, appropriandosi cosi dello scatto.
Ma come chiamiamo il risultato del loro lavoro? è street photography? e loro? sono fotografi?
Inutile dire che in molti hanno urlato al tradimento ma io non ne sarei così sicura.
Se non si tratta di fotografia, si tratta comunque di arte, questi scatti altro non sono che dei ready made, oggetti già esistenti che diventano opere d’arte perchè prelevati dall’artista e posti in una contesto diverso da quello per cui sono stati creati.
L’artista con la sua operazione di scelta trasforma l’oggetto dandogli un nuovo significato.
Il lavoro dell’artista in questo caso è più vicino all’editing, che non alla fotografia, anche se mi chiedo cosa fa il fotografo quando inquadra una scena da fotografare? non è forse anche quella un’operazione di editing?
E l’occhio fotografico? la prospettiva? lo stile? le scelte soggettive sono sicuramente limitate dal fatto di lavorare con immagini già esistenti.
E’ anche vero però che difficilmente qualcun’altro potrebbe scattare le stesse identiche foto di Rickard e Wolf utilizzando Google Street View perchè le possibilità di inclinare in su è giù, spostarsi su una certa visuale virtuale e croppare sono parecchie.
Credo però che la fotografia non sia solo il risultato di tecniche ma di fattori emotivi, cosa accade quando il fotografo si trova in una realtà tridimensionale che la sua sensibilità gli permette di traslare efficacemente sul piano bidimensionale?
Mentre il fotografo vede il mondo, l’editor vede solo fotografie del mondo.
La fotografia non è forse quel trovarsi in faccia alle cose? qui invece il rapporto con la realtà è doppiamente diluito, a livello temporale (sono immagini registrate e non in tempo reale) e, soprattutto, a livello visivo, come possono quindi non essere diluite anche le emozioni?
Parlavo ieri con Stefano De Luigi, bravissimo fotoreporter, sulla casualità o meno di certi singoli scatti che come sottolineavo nel mio post della scorsa settimana riescono a diventare metafore di situazioni complesse, ebbene quello che mi ha spiegato Stefano è una grande verità della fotografia e cioè che certi scatti non arrivano per caso ma sono il frutto di avere vissuto sul campo una determinata situazione per abbastanza tempo da averne così bene introiettato le dinamiche da riuscire a sentire quando intorno a sè si stanno verificando le condizioni che porteranno a “la fotografia”.
Lo senti nella pancia, nel cuore e lo vedi con gli occhi.
Insomma la fotografia che racconta veramente arriva con la consapevolezza di quello che si vuole raccontare, con l’esperienza, che è quella reale fatta con tutti i sensi, non mediata da uno schermo.
Quello che hanno fatto Rickard e Wolf però non è di serie B, è semplicemente diverso, sicuramente interessante perchè ci spinge a riflettere sul senso dell’immagine e le sue implicazioni.
Queste fotografie pixelate parlano il linguaggio della contemporaneità, i volti offuscati ci interrogano sulla nostra identità.
Nei lavori dei due artisti a prevalere sull’oggetto in sè è l’idea, il concetto cui rimanda l’oggetto consentendo una meta-riflessione.
Non sono d’accordo con chi trova che sia un’espediente manierista, sì forse potrebbe diventarlo in futuro, forse lo è già per alcuni che utilizzano questo strumento senza che dietro ci sia una riflessione intelligente ma poi d’altronde anche molta fotografia tradizionale è senz’anima.
Dà da pensare che foto prodotte meccanicamente e senza occhio umano possano essere inaspettatamente poetiche, o inquietanti come quelle della street photography tradizionale, come se Google Street View fosse un enorme memoria collettiva cui attingere, in cui cercando bene si puo’ trovare la propria visione del mondo.