Sonar: segnali di mobilità in-sostenibileBye bye privacy (ma forse non è poi così un male)

Qualcuno dà un’anima alle cose. Un nome. Qualcuno parla con le cose, dice: “brava” alla vecchia auto che ha passato il passo alpino. Dice: “fanculo” alla catena della bicicletta che scarroccia fuor...

Qualcuno dà un’anima alle cose. Un nome. Qualcuno parla con le cose, dice: “brava” alla vecchia auto che ha passato il passo alpino. Dice: “fanculo” alla catena della bicicletta che scarroccia fuori dagli ingranaggi. Saluta per nome le gallerie dell’autostrada. Viaggiando da soli capita spesso di farsi nuovi amici in forma di cose. Io ad esempio ho una relazione con l’appendigiacca a bottone incastonato nei poggiatesta dei sedili dei Boeing 737. O con i tassametri embeddati negli spechietti retrovisori dei taxi del Nord Europa. Manie, ognuno ha le sue. Con l’avvento dei device mobili intelligenti, poi, abbiamo amici che un’anima ce l’hanno davvero. O almeno, l’anima che gli abbiamo infuso permettendo loro di gestire i nostri contatti, le nostre storie, la nostra interazione sociale. La nostra anima: digitale, ma pur sempre un’anima.

Capita però che viaggiando le cose si perdano o peggio ancora, qualcuno le rubi. Quelli che erano semplici ladri diventano ladri d’anime. E mentre voi vi incazzate in qualche posto di polizia magari di Barcellona e magari versate due lacrime – una per la vostra anima digitale e l’altra per il vostro amato device là, solo, abbandonato nelle mani di un Rafik qualsiasi – ecco che lui comincia a guaire. A dirvi “papà papà”. A raccontare dove si trova e pure con chi. E così il paradgima si ribalta, te ne racconto un’altra. Sono le cose a chiamare noi. Come l’ipad di Michael che rubato dentro a una fiera Catalana ha cominciato a guaire dov’era e con chi.

Che non vuol dire serva a qualcosa: Michael non ha potuto fare altro se non dire al poliziotto che il suo ipad si trovava in un appartamento dentro a un complesso di condomini. “Dottò, che vuole che facciamo?” Resta il fatto che se siete degli smart-traveler vale comunque la pena scaricarvi qualche app come Mobileme, Where’s my phone?, Ihound o Undercover in grado di localizzare il vostro beneamato.

Certo, in qualche modo la faccenda vi obbliga a perdere un po’ di tempo se è vero che – se fossimo davvero degli attenti consumatori – dovremmo passare in media (in media?) settantasei giorni all’anno a leggere tutte le privacy policy conseguenti dal nostro avere un’anima digitale. Ho come l’impressione sia tempo perso, se mi permettete. Perché non vuol dire che pur leggendo tutto con attenzione abbiate capito se e dove vi stiano fregando. Sto diventando un fautore dell’abbandono assistito e consapevole delle privacy policy (cosa in qualche modo abdicata dal paradosso sopra citato: chi ha 76 giorni della propria vita da buttare per poi alla fine non capire?): i bla-bla attorno al tema (che è comunque sacrosanto, attenzione) sembrano strepiti di fine-impero. Quello della safety-zone del sé digitale. Secondo Coupland “nella Nuova Normalità dovremmo spogliarci di ogni illusione di rilvanza individuale” e mi pare ormai evidente che se tenessimo davvero alla nostra privacy dovremmo rinunciare in toto alla nostra presenza digitale. In toto: il vaso di pandora del nostro id è già stato aperto e siamo ormai polvere aggregata ad altra polvere. Tra l’altro il processo di “deseizzazione” (il diluire volontariamente il proprio senso di sé e il proprio ego riempiendo internet di più informazioni possible al riguardo*) sembra il combustibile di gran lunga più efficace per alimentare l’abbandono volontario del nostro status di esseri con un privato. Ma ammettiamo che questa sia ancora una scelta: sarebbe comunque una scelta senza aree grigie. O bianco o nero, nessuna via di mezzo. Tuttavia a mio avviso scegliere il nero dell”’inferno” digitale non è detto che poi sia un male definitivo e che non ci sia pure qualche sprazzo di bianco candore.

Perché, ad esempio, se può darvi fastidio far sapere dove vi trovate e verso dove vi state muovendo, il vostro fastidio potrebbe essere mitigato da quanto potrebbe essere utile ad altri conoscere la vostra traiettoria. Sto lavorando ad un progetto che fa della disseminazione esplicita delle proprie tracce il suo punto di valore, in una rinuncia palese a una grossa fetta del proprio diritto di privacy (che certo può essere tecnologicamente salvaguardato, ma fino a dove, fino a quando, fino a quale riga della policy?). Perché se permetto al mio device digitale di continuare a dire dove sono, sillogicamente sto dicendo che lì ci sono e ci posso andare. Immaginate per un secondo di seguirmi come se fossi il pallino blu sulla mappa di Google. A un certo punto potrei sparire dalla strada e apparire dentro a un edificio. E a un certo punto apparire al quinto piano di quell’edificio. Niente di eccezionale se fossi uno che cammina con le proprie gambe. Ma se fossi su una carrozzina? Non vorrebbe forse dire che quel marciapiede lo potevo percorrere? Che in quell’edificio ci potevo entrare? Che al quel piano ci potevo arrivare e che quindi l’ascensore era funzionante ed accessibile? Suona tanto come pollicino 2.0 e la vecchia storia delle briciole di pane che qualsiasi – più o meno – esperto di usabilità ha ripetuto all’ossesso quando si trattava di disegnare i sistemi di navigazione dei siti web. Solo che in questo caso siamo noi a lasciare le briciole e non qualche webmaster con uno script. Ancora crowdsourcing come scrivevo qualche giorno fa: mi sa che dovremo farcene una ragione e decidere defintivamente da che parte stare. Dal lato bianco o da quello nero della nostra anima.

* Le ultime 5 ore, Douglas Coupland, ISBN Edizioni, 2010, pag. 259

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