Il marchese del GrilloCosa tiene accese le stelle: la mia lettera a Mario Calabresi

Faceva caldo l'altro giorno. Così ho deciso di buttarmi al fresco di una libreria nel centro di Milano e di scegliere un libro per i giorni a venire. Mi è capitato fra le mani una ristampa di Cosa ...

Faceva caldo l’altro giorno. Così ho deciso di buttarmi al fresco di una libreria nel centro di Milano e di scegliere un libro per i giorni a venire. Mi è capitato fra le mani una ristampa di Cosa tiene accese le stelle, reportage dello scorso anno di Mario Calabresi, il direttore de la Stampa. Una raccolta di storie di italiani, questo è essenziale, che non hanno mai smesso di credere nel futuro. L’invito è quello a crederci sempre, senza mai arrendersi, battendosi per i propri obiettivi. Vale la pena di leggerlo, dico davvero. Conclusa la lettura, ho deciso di sottoporgli le mie impressioni sul tema…

Egregio Direttore Calabresi,

Ho letto con interesse il suo ultimo libro, Cosa tiene accese le Stelle. Un po’ in ritardo sulla data di pubblicazione, si tratta della ristampa del mese di giugno, un anno esatto dalla data di uscita. Anzitutto complimenti: scorre via come l’acqua, si legge in un baleno. L’idea che il futuro appartenga a noi, a chi ha la forza di credere ardentemente in ciò che fa, l’impegno e la dedizione ingredienti principali, è una straordinaria infusione di fiducia.
Ho vent’anni, da quando ero piccolo coltivo la passione per il giornalismo, la narrazione dei fatti. Tante volte l’ho accantonata, mi sembrava impossibile farcela, perché io? Mi sembrava un sentiero impervio, troppo difficile per me. Oggi la situazione è cambiata, non sono arrivato da nessuna parte, beninteso, ma almeno ho fatto pulizia nella mia testa e ho deciso di ascoltare i miei sogni, il desiderio di farcela supera qualsiasi insidia. Qualche collaborazione qua e là, la passione che mi porta a logorare la tastiera ad ogni momento utile, gli amici che mi leggono, danno suggerimenti e muovono critiche. Le più fondate, spesso. Le pagine in cui descrive il suo percorso di avvicinamento al giornalismo, l’esperienza a New York con Gianni Riotta, lo scoramento alle parole del direttore dell’Ansa che la metteva di fronte ad un futuro a tinte fosche. Spero anch’io, un giorno o l’altro, di poter raccontare una storia simile alla sua, un successo coronato. Mi basterebbe fare il mestiere che amo, non dover ripiegare su fantomatici piani B, uscite di sicurezza per raggranellare qualche decina di euro in più.

La prospettiva che l’oggi sia migliore di ieri è fondata, in gran parte condivisibile. I progressi in campo scientifico, medico, la connettività. Temi importanti, mai mi sognerei di rimpiangere la Sicilia di mio nonno, novant’anni fa. O la violenza degli anni di piombo, i racconti dei miei genitori bastano a tenermi lontano da chi vuole imporre un nuovo ordine sociale attraverso la violenza. Fanatismi in risposta ad altri fanatismi, spirali di una ferocia inaudita. Sto bene nell’epoca in cui vivo, non mi è mai mancato nulla, una vita abbastanza serena. Qualche alto e basso, com’è normale che sia, ma la mia vita scorre quieta.
Non posso però esimermi dal pretendere qualche dovuto correttivo senza per questo ammuffire
davanti alle fotografie logore del passato. Gli ultimi dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro profilano una situazione assai poco rosea: il 32,6% dei giovani è senza un’occupazione. Per non parlare del milione e mezzo di persone, i Neet, triste acronimo di teen (giovane, appunto) che han rinunciato a studiare, lavorare e frequentare corsi di formazione. Numeri che non possono essere trascurati per la loro drammatica importanza, segnali di un declino evidente.
Ma anche il rapporto Istat dell’anno corrente denuncia la situazione di un paese paralizzato, uno dei peggiori livelli di mobilità sociale intergenerazionale contrario alle tendenze registrate fino agli anni ’90 del novecento. Un morbo che ha contagiato per primi i nati a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, meno di un sesto di essi è riuscito a migliorare la propria condizione occupazionale. Quasi nessuno ha raggiunto la classe sociale della propria famiglia di origine. I posti disponibili nelle stratificazioni intermedie e sommitali della piramide occupazionale sono in larga parte occupati da adulti e anziani, il piccolo microcosmo della politica ne è uno specchio evidente. Nichi Vendola, che gli anta li ha superati da quindici anni, veniva acclamato come il nuovo che avanza fino a pochi mesi fa. Renzi, che invece i fatidici anta non li ha ancora raggiunti, è stato bollato come provocatore per aver messo in discussione una classe dirigente vecchia bacucca che tanto ha ottenuto e poco ha dato. Per quanto le mie personalissime convinzioni possano non discostarsi di molto da quelle del leader di Sel, trovo inaccettabile la marginalizzazione della posizione di chi, a ragione, rivendica che la politica non sia l’affare di pochi eletti, il giovanilismo brandito a mezzo di discredito.
Ma è meglio abbandonare il terreno scivoloso della partitica per tornare all’analisi dei dati. Sempre dal rapporto Istat del 2012 si evince che le provenienze famigliari hanno ancora una rilevanza straordinaria nella definizione dei destini delle persone. Ne deriva una difficoltà enorme, per i figli delle classi medio-basse, a raggiungere collocazioni sociali migliori. Un problema, questo, che trascina la dispersione del capitale umano derivante dal peggioramento delle condizioni lavorative in rapporto al miglior livello di istruzione degli eredi rispetto ai padri.

Nulla di tutto ciò, Direttore, deve indurci a disperare. A credere che il futuro sia tutto pesto. E nemmeno, da ventenne, sento di rifugiarmi dietro facili coperte di linus per giustificare eventuali fallimenti personali e generazionali. Ma non possiamo nasconderci la gravità della situazione, l’italian dream non esiste se non per rari casi costretti a ripiegare sull’estero, la sua intervista a Loris Degioanni è l’esempio calzante. E non possiamo nemmeno incappare nel subdolo tranello di crederci super-uomini, quello che ha contraddistinto l’etica del neo-liberismo da cui sento di dover rifuggire con tutto me stesso. L’ho ripetuto tante volte nel mio piccolo angolo su Linkiesta: la televisione commerciale, e con maggior rammarico quella pubblica, han finito per essere una terribile livella, specchio dei sogni di gloria di ciascuno. Quel che conta è apparire. E così si può ballare, cantare, recitare senza saperlo fare. Anzi, se non lo si sa fare il divertimento è maggiore e la curva dello share sale. Una società, la nostra, in cui tutti possono essere tutto, basta volerlo. E se non si riesce ad esserlo, vuol dire che non lo si è voluto abbastanza.
Il momento è propizio per il cambiamento, qualcosa di imminente sta per accadere, questa è la mia sensazione. O forse è già accaduto. Quel che è certo è che in un anno gran parte dei nostri dubbi verranno risolti. Il suo bellissimo libro apre la pista ad una strada nuova, quella dell’ottimismo, della fiducia nel futuro contrapposta al dramma del pessimismo qualunquista. Non dimentichi, però, che la volontà non può tutto. E’ una lezione che dovremmo avere imparato.

Con sincera stima,

Un cordiale saluto,

Davide Salvi

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