AsterischiUn gioco da leggenda: 173 anni di baseball

“Chiunque volesse conoscere il cuore e la mente dell'America dovrebbe imparare a conoscere a fondo il baseball, in particolare le regole e le qualità sia positive che negative del gioco in sé”. Ja...

“Chiunque volesse conoscere il cuore e la mente dell’America dovrebbe imparare a conoscere a fondo il baseball, in particolare le regole e le qualità sia positive che negative del gioco in sé”.

Jacques Barzun, storico francese naturalizzato statunitense

No, niente da fare. Non c’è football che tenga. Nemmeno basket. Per capire gli americani devi conoscere il baseball. La leggenda narra che proprio il 12 giugno del 1839 Albert Doubleday, militare statunitense, abbia inventato il gioco più rappresentativo della mentalità americana.

Nel baseball, appare ovvio, c’è tutto. Ci sono il senso del rispetto delle regole e il passato polveroso della vecchia America (quasi si fosse nel vecchio west). È lo sport dell’infanzia a stelle e strisce, ed è la codificazione di un universo che affascina e allontana gli stranieri. Dietro (o sopra, se preferite) la forza del diamante indistruttibile e attraverso i voli pindarici della mitica pallina bianca si nascondono i palpiti tenui del cuore americano. Certo, metaforicamente parlando. Anche qui da noi il calcio dovrebbe essere metafora di esistenza, ma non c’è così tanto radicamento e affetto.

La letteratura ne ha fatto incetta. Da John Fante a Don DeLillo (ne ha parlato diffusamente Francesco Longo su La Lettura http://lettura.corriere.it/baseball-le-5-pagine-memorabili-della-storia-della-letteratura/) il baseball è un grimaldello atemporale per sposare le pagine della letteratura con la storia americana. Fante ne parla in Un anno terribile, pubblicato postumo nel 1985, mentre Don DeLillo illumina Underworld, siamo nel 1997, con un memorabile fuoricampo.

Ma a noi piace ricordare un volumetto meno noto ma assai indicativo. Nel 1968 Robert Coover pubblica The Universal Baseball Association, Inc., J. Henry Waugh, Prop., che arriverà in Italia soltanto nel 2002, per i tipi della Fanucci, col titolo Il gioco di Henry. Il protagonista, che è un semplice contabile, crea il baseball basandosi sul gioco dei dadi.

«A metà del settimo, l’erede di Brock aveva chiuso un altro inning imbattuto, uno! due! tre! Ventuno già fuori e solo sei ancora da eliminare! E Henry aveva il cuore che andava a cento all’ora, sudava per la tensione e il sollievo insieme, non riusciva a stare seduto, non riusciva a pensare, era lí dentro, insieme a loro. Sí, ragazzi, ci siamo, ne era certo! Non era più soltanto una partita di baseball, era qualcosa di più, era storia! E Damon Rutherford la stava scrivendo».

Accade così che il buon Coover, da postmoderno consumato, sezioni e spogli il gioco, non parlando del baseball, ma delle sue regole, delle sue statistiche, dei campionati immaginari, dell’invenzione di mondi. Sì, sono proprio gli States.

Filippo Grasso

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