Diciamo che stare a Londra mi rende un po’ più ironica. Semplicemente per il fatto che sono, per la maggior parte del tempo, sola e riesco a non prendermi sul serio. Se lo facessi, sarei probabilmente depressa. Perché non parlando con nessuno tutto il giorno, succede anche questo. E allora ironizzo. Anche su me stessa. Il modo migliore di vivere. Per me. Qui, invece, in Italia, ho amici e spesso questo non è un bene. Perché si arriva a parlar di cose serie. E allora l’ironia lascia spazio alle riflessioni. Che sfociano sempre in verità, in assoluti dei quali non vorrei mai sentir neanche l’odore. Perché, infondo, sono un’incosciente e mi piace esser così. Ho un limite ben preciso e chiaro, oltre il quale non vado, ma prima di quello, c’è tutto il mio mondo.
Ad ogni modo, stasera, riflessioni a palla, a manetta, che ogni dialetto applichi il suo modo di dire e comprenda: mi veniva da vomitare. La verità fa male. Agli altri. A me da il volta stomaco. Ce n’è proprio bisogno? Dice di sì. E allora stasera buschiamole. E ne ho prese parecchie. Tipo: quello che odi negli altri, è quello che odi in te stesso.
Aiuto. Cosa odio negli altri? L’ingiustizia ed esser presa per il culo. Perché io sono ingiusta e prendo per il sedere tutti. Brutto, no? Con i miei occhietti dolci e la mia bontà, convincerei chiunque che io sono una santa, brava, amabile donna. Invece sono la peggior razza che esista sulla faccia della terra. Quelli che fanno credere a tutti quello che vogliono. E mi riesce bene. Prendiamo il lavoro ad esempio: sempre la prima. Fiducia, stima, professionalità. Non che io non sia stimabile, amabile o professionale, semplicemente ispiro in modo totale questi sentimenti negli altri.
Ma facciamoci un’altra domandina leggera leggera, dopo aver constatato che ciò che odiamo nelle altre persone (amici, amanti, fidanzati, mariti) è, in realtà quel lato del nostro carattere che non sopportiamo, allora, ecco la domanda: perché rifacciamo gli stessi errori che abbiamo visto e vissuto? E cerchiamo di riparare con tutte le nostre forze e non rifarli, anche se in realtà li stiamo già facendo (spesso in modo meno drastico)? Gli americani la chiamano “comfort zone”, io, personalmente, la chiamo merdina. Quella zona dentro cui ti senti bene, a casa, a tuo agio, per cui riesci a comportarti come hai sempre visto, come ti è stato insegnato o come hai percepito, sentito. Finisce che restando nella “comfort zone” ripeti gli stessi errori che hai visto e vissuto nella tua vita. Però. Però sei scaltro e lo sai, cerchi di non fare proprio proprio quegli sbagli. Cerchi di migliorarli. Non cedi alla comfort zone che ti riporta sulle stesse orme. Brutta storia. Cerchiamo sempre quello che ci è più familiare: azioni, profumi, odori, sapori, modi di fare, atteggiamenti visti e vissuti. Familiari. Negativi o positivi che siano, quello è e sarà il nostro mondo e destino. A meno che. A meno che, come scrivevo dinnanzi, non realizziamo che noi non siamo necessariamente quello che abbiamo visto e vissuto. Siamo persone che possono essere individui senza troppi retaggi del passato. E forse possiamo anche pensare di esser diversi da “loro” e da come ci vogliono. Senza tutte quelle credenze che ci sono state trasmesse. Io, ad esempio, vengo da una famiglia un po’, come dire, pazza. La normalità per me è noia. La mia comfort zone è l’anormalità. Eppure ho cercato normalità tutta la vita, questa benedetta normalità. Ma poi ci devo fare i conti non essendo qualcosa di familiare. Quindi è difficile da vivere. Ma mi sforzo perché ci credo. Credo che sia sana. Equilibrata. Quindi, tento in tutti i modi di essere, io stessa, sana, normale, equilibrata. Ma non mi riesce molto bene e così ho le mie vie di fuga: la testa per aria, perdo tutto, vado a zonzo, mi permetto insomma una anormalità, come ho sempre vissuto io nella mia famiglia. La mia comfort zone, appunto. Cocciuta ed orgogliosa però, non voglio dimostrarlo, non voglio cedere a questa zona di conforto, perché sarebbe come dire “sì, io sono esattamente come sono stata cresciuta, e rifarò tutto quello che ho visto fare, positivo o negativo che sia, per me è giusto”. Allora faccio quella normale, precisa, brava, buona. Perché voglio dimostrare al mondo intero che io no, non sbaglierò. Appunto. Perché? Forse pensiamo di essere più amati così, se non seguiamo gli errori visti e vissuti? Se facciamo i bravi? Che hanno capito la lezione? Un proverbio dice “errare umanum est, perseverare autem diabolicum”. E appigliandoci a questo detto, cerchiamo di fare scelte diverse. Ma, ripeto, bisogna esser coscienti di questo perché gli errori visti in famiglia ci appariranno sì sbagli drammatici o meno, ma la comfort zone ci riporterà lì, volenti o nolenti.
Ogni tanto provo a cancellare tutto e risettarmi. Via gli errori. Sciò. Io sono brava. Ma non serve a niente. Posso cancellare quello che ho sbagliato? Posso far finta di non aver mangiato un dolce, ad esempio? No. Lo devo mangiare, gustare, assaporare. Dopo potrò dire che era buono, squisito, unico. Ma l’averlo mangiato, in verità, ha solo riempito uno spazio nel mio stomaco. Generalmente l’atto del mangiare i dolci è dettato non da fame, bensì da golosità. Questo esempio è davvero un caso limite, ma, per capirci, smetterò di mangiare dolci per avidità o golosità, solo quando avrò capito che non mi servono a niente, i dolci, se non per una momentanea voglia, per un vuoto da riempire, sia esso golosità, trasgressione, noia o quant’altro. Una volta riempito quel vuoto con altro, possibilmente non con qualcosa di esterno a me, ecco che i dolci spariranno. Ma quanti esempi si possono fare di questa bulimia culturale?
La domanda è: con cosa riempio quel vuoto? E soprattutto Ste, perché cavolo siamo finiti a parlare di questo tutta la sera? Sono le due e domani sono a Milano a Radio Deejay che cavolo.
Buona notte alle seghe mentali. Belle però eh