Intanto non è vero che il caffè è una ciofeca dappertutto. Il fatto è che uno arriva qui che, nelle vene, già gli scorrono dieci ore almeno di nostalgia in chicchi pregiatissimi, torrefatti nel tragitto da casa all’aeroporto. Arriva alla dogana e si dichiara prigioniero politico, ostaggio dei pregiudizi culinari, e da lì in poi è tutta una parabola discendente. Certo, non mi riferisco a quei caffè lunghi da asporto che – al confronto – il Gange parrebbe un colluttorio: quelli fanno piangere, non beveteli se ci tenete alla vostra primogenitura in fatto di caffetterie. Mo’ non lo so altrove, ma a Philadelphia c’è la Colombe. Anzi ce ne stanno due, di punti vendita, e c’è sempre la fila. Fanno un caffè abbastanza italianeggiante, ha un retrogusto di bar Stazione e di Gazzetta dello Sport aperta sul tavolino accanto al videopoker. Sarà perché lo serve Lorenzo, o perché sulla parete (quella a destra se entrate da Penn Square) c’è una gigantografia pop di piazza Duomo – con le proporzioni sbilenche ed i palazzi più vicini di quanto non siano realmente. Dev’esserci lo zampino di Lorenzo, vi dicevo, che a undici anni – dopo le elementari – ha seguito sua sorella ed è corso negli States. Ha fatto il college e il cameriere: qui le carriere sono indissolubilmente legate. Oggi sta per finire l’università, corso di business, e sta scordando la grammatica. Ora che è estate lavora spesso al mattino – che se sei una caffetteria vuol dire che al mattino ti aspetti un’affluenza cospicua o comunque superiore a quella postprandiale, dunque ha un ruolo di responsabilità nella gerarchia elementare del bancone. Di Milano si ricorda una foto. Una foto che nevicava e l’ha scattata suo padre. Ci sono lui ed il fidanzato di sua sorella. Con cappotti inadeguati e sorrisi catarifrangenti. Sua sorella ha fatto in tempo a sposarsi ed a divorziare, Lorenzo e quello che per brevità chiameremo cognato ora sono amici più di prima. Se vai al bar con lui, Lorenzo ti offre il caffè solo perché sei amico di un suo amico. E spiega, seccato, agli indigeni che glielo chiedono con insistenza che la differenza tra un caffè macchiato ed un cappuccino non è che sia poi tanto facile da rendere a parole. «Macchiato is shorter», taglia corto. In una teca affatto dissimile da quelle di un museo di detriti del paleolitico, a la Colombe tengono una macchina da caffè Gaggia. «A me’ me piace».
Eppoi non esistono le edicole, proprio non ci sono. Infatti: come si traduce edicola? ‘Kiosk’ oppure ‘newsstand’: direte. Saputelli: quello è inglese, non americano (e comunque cercare su Google Translator non valeva ed ero capace pure io: è quello che ho fatto, per l’appunto). Secondo me, edicola in americano non si dice perché semplicemente non ce le hanno. E, con tutto il rispetto per la metafisica (che è quel mondo impossibile, di quando si dice: «Noi puntiamo all’elettorato moderato» o anche: «Dopo le feste mi metto a dieta»), non ha senso dare un nome ad una cosa che non esiste. I giornali li compri al supermercato o all’emporio o ai distributori o ai baracchini. Il che è uno svantaggio enorme, perché avere un edicolante di fiducia è tutta un’altra cosa. Gli puoi chiedere di tenerti una copia per quando ti svegli tardi o per quando il primo inserto di una collana di 49 tascabili a 4,90 euro è gratis e sai già che andrà a ruba perché i tuoi concittadini comprano il giornale solo per la prima uscita. Tuttavia, c’è il vantaggio che – se non trovi il giornale che ti interessa perché l’han collocato ai piedi di una piramide di cocacole – puoi fare amicizia con gli anziani che, come te, sono alla ricerca del New York Times. Bill, per esempio, si è portato i suoi cinque dollari per l’edizione domenicale e confessa che non riuscirà mai a finirla. Non sa che si perde (lo sa), questa Sunday Review è un capolavoro. Ed anche il Magazine non scherza, qualità piuttosto alta – a proposito, quando vorrete sbarazzarvene scoprirete pure che la raccolta differenziata qui in USA è un miraggio, carta plastica alluminio vanno insieme, giusto separati dall’umido. Bill è infaticabile ed ha poco tempo, si è sciroppato quattro ore e più di viaggio per trascorrere poche ore con sua moglie che passa l’estate su un’isola tranquilla del New Jersey in cui la gente lascia la chiavi attaccate al cruscotto e le porte aperte anche di notte. Bill, invece, che ora è in macchina con noi (ci conosce da poco ma si fida, ci ha chiesto uno strappo in città) deve correre a Washington. A settantanni è un collaboratore del Ministro delle Attività Produttive dell’amministrazione Obama e sta lavorando ad un progetto sul nucleare pulito. Non può dirci altro. «Posso almeno pagarvi la benzina?»