L’agente MormoraAnche Philadelphia ha la sua Torre Galfa, l’unica differenza è che questa esiste

È tramontata l’estate sul progetto ambizioso dell’occupazione di Torre Galfa a Milano, ci abbiamo tutti trincato le nostre birre fresche all’ombra del Pirellone: il tempo di un appetito stagionale,...

È tramontata l’estate sul progetto ambizioso dell’occupazione di Torre Galfa a Milano, ci abbiamo tutti trincato le nostre birre fresche all’ombra del Pirellone: il tempo di un appetito stagionale, una parata di intellighenti, uno spettacolo luminoso, una polemica tutta strapaesana, una resa molto condizionata. Quella sfida, sia detto, non è mai stata archiviata, tuttavia la smobilitazione repentina e le mai sciolte contraddizioni circa l’identità dei destini hanno portato ad un depotenziamento ovvio. Vi sarete forse scordati di loro oppure eravate semplicemente distratti, fatto sta che quei ragazzi han trascorso le ultime settimane coi pennelli in mano, ingaggiati in un campo creativo sotto il solleone – sono giunti ormai oltre il quarantesimo giorno di laboratorio. Qui intorno, invece, a sole sette miglia dal centro di Philadelphia, c’è un M^c^o guappo almeno quanto l’esperimento milanese. Scalcagnato negli addobbi di cianfrusaglie, ma superlativo nell’intuizione. Ed il bello, la stridente differenza, è che funziona (nel senso di: non se la passa niente male e potreste capitarci una domenica pomeriggio mentre inaugurano un’esibizione di cui si capisce poco, se non che c’entra col bello: le installazioni sono parte di uno show titolato Catagenesis). Eccola la notizia, minima e timida. Globe Dry World – questo il nome della Galfa ‘mericana – sorge all’interno di un vecchio colorificio costruito due secoli fa, oggi è una comunità felice di artisti ed artigiani, un’installazione urbana permanente. Ci si trovano dozzine di vecchie spole, silos arrugginiti, polvere di acciaio e soffitti scoperchiati.

Nel 2007 un gruppo di artisti lo ha rilevato: la vecchia manifattura tessile offre oggi un tetto a tutti i creativi della città che in questi spazi hanno laboratori, residenze e spazi espositivi: «it’s dedicated to delivering quality, affordable spaces to tenants while at the same time building a supportive community that fosters cooperation and success». Il perno di questa altalena è nei quattrini delle loro tasche investiti in un palazzotto mastodontico e a cielo aperto, con la gramigna fiorita sui mattoni rossi e le finestre sfondate dall’incuria, con le pareti imbrattate di indaco e le travi penzolanti sotto le nuvole. Modello americano per un ripensamento delle economie culturali, dunque. Se c’è qualcosa che la Galfa di Pennsylvania insegna è che lì da noi stiam sbagliando parecchio. Abbiamo imboccato un vicolo cieco ed abbiamo confinato la cultura al rango di appendice fricchettona dei capitolati di spesa destinati alle sagre del fico secco ed alle fiere del bestiame od ai concorsi di bellezza (che poi: trovate le differenze, se siete in grado). Christian Raimo – scrittore della premiata scuderia di MinimumFax e neoresponsabile dell’elzeviro di Pubblico di Telese, in un’intervista a tratti molto condivisibile, lo definisce «il grosso errore delle politiche culturali è stato quello di separare la cultura (avvicinandola allo spettacolo e al turismo) dall’istruzione e dalla ricerca». L’inesatta catalogazione è il peccato originale, e qui devono averlo capito decenni or sono: si costruisce una formazione matura puntando sugli effetti positivi dell’arte. Non basta il modello manageriale del sedicente cartellone estivo che fa dei nostri borghi antichi discariche a cielo aperto, intasate da rottami di autoproclamatisi artisti.

Nella stessa conversazione sulle politiche italiane insomma si dà luogo alla locupletazione del fraintendimento, si apre una voragine nell’argomentazione e, ragionando a proposito di industria della letteratura, risuona il piagnisteo: «Non mancano le idee, non mancano le persone: mancano i soldi pubblici per nutrire tutto questo». Ed è di questo che dovremmo discutere: ha senso attendersi da uno Stato impantanato nei bilanci ‘lacrime e sangue’ l’elargizione di un’elemosina per vernici e caravanserragli? Non è rischioso appaltare la genialità a canuti burocrati buoni per tutte le stagioni? Può una lacrimuccia supplice lavare le colpe di decenni di immobilismo e malinteso senso di sussidiarietà? Giocoforza la spontaneità non può aver necessità di abbeverarsi alla fonte del «sostegno pubblico». La carta d’intenti del progetto nato mesi fa in zona Centrale è ricca di certezze e ospita la veduta corta. «Macao esprime la volontà di avviare una discussione, a livello locale e nazionale, che miri a qualificare il concetto di beni comuni radicandolo in processi di democrazia partecipativa. M^c^o vuole contribuire ad una riformulazione delle modalità di utilizzo dei beni collettivi, senza rientrare in meccanismi di affidamento e delega a soggetti pubblici o privati che promuovono un diritto esclusivo ed escludente». Il fine è nobile ed encomiabile, eppure il mezzo si è rivelato inopportuno se non inefficace: il “timeo privatos et dona ferentes” è un inghippo logico clamoroso. Trai principi se ne legge uno perentorio: «non perseguire scopo di lucro», quasi che fare quattrini con la brillantezza delle idee ed il fascino delle forme sia un terribile abominio. Quasi che sia impuro avere un Return on Investment che faccia girar la testa ai petrolieri e che sensibilizzi i magnati circa un messaggio esile: si fanno affari anche con le arti.

A Philadelphia ce l’hanno fatta in un modo umile e generoso: si sono messi una mano sul cuore ed un’altra sul portamonete, con sprezzo del pauperismo che sembra essere di moda oltreoceano. Solo fondo privati sono stati impiegati per il recupero di questo immenso capannone industriale frequentato da hipster coi calzoni arrotolati all’altezza delle caviglie e nobildonne sorridenti su tacchi vertiginosi (la stessa varietà antropologica che si poteva trovare nelle prime occupatissime settimane di M^c^o, fatte di adunate urbane e cene autofinanziate). Oggi, inoltre, il business di Globe Dry World incassa premi e segna utili, i loft che questi artisti han tirato su a proprie spese possono essere affittati per cifre neppure esagerate, una parte consistente del padiglione centrale è stata recuperata e dotata di ogni comfort – compresa l’aria condizionata e la lavatrice. Questa sera – per dire – son stati loro ad offrire da bere senza badare a spese, al solo fine di corromperci: sia chiaro, potrebbe essere merito di tutto quel vino bianco se – a quest’ora della notte – l’esperimento balordo di questi pionieri ci pare un capolavoro. Il terrazzo punta a divenire un orto botanico con vista sulla skyline, zeppo di specchi e ortaggi. La madre di chi ci accompagna in un tour mirabolante ha tenuto per sé un laboratorio all’ultimo piano: ci sono finestre grandi e cornici barocche, tele sparse in giro ed un irresistibile profumo di lavanda. Oggi sorride e si atteggia da padrona di casa, prende per mano i visitatori e li convince ad innamorarsi. Abbiam finora bastonato il piacionismo dei creativi nostrani, ma sia chiaro: parte della responsabilità è condivisa da “prenditori e magnager” (per dirla à la Lotito) che, emulando modelli giunti al crepuscolo, scialacquano i patrimoni in inservibili e fiacche squadrette di pallone o nel foraggiamento sospetto di enti non meglio identificati.

Ci si incontrano storie divincolatesi dal quotidiano al Globe: studenti coi taccuini, italiani immanicati, gonne lunghe e caschetti corti, fotografi di terza età. Ed anche, ed anzi soprattutto – almeno da questa prospettiva, un signore distinto accompagnato da moglie e figlia. Veste una giacca di carta di riso e lunghi pantaloni chiari (un trucco per distinguere gli autoctoni dai forestieri è concentrarsi sulla lunghezza dei pantaloni, mai uno yankee eccederebbe in tanta stoffa). Si chiama Corrado Rovaris e dirige orchestre in giro per il mondo. Riflette di Milano, di quanto gli manchi neanche troppo nel corso dei cinque mesi che trascorre qui sulla East Coast, di quell’appartamento lussuoso in zona San Babila – da dove si raggiungeva la Scala in pochi minuti – cui ha dovuto rinunciare. Da otto anni ha scommesso sull’America, ottenendo in cambio almeno la stessa fiducia: dirige la blasonata “Opera Company of Philadelphia” ed è stato chiamato a formare una banda di giovani talenti in the middle of nowhere: l’Artosphere Festival by the Walton Arts Cente. I soldi, manco a dirlo, ce li mettono i privati che son felici di imprimere le proprie generalità sulle targhe inaugurali di centri sperimentali destinati a fare la storia di questo Paese senza storia (in questo caso si tratta dei billionari “padroni” del colosso Walmart). Rovaris si aggira per le opere, osserva e commenta: «Difficile che un capitano d’impresa faccia lo stesso da noi». Ci vuole coraggio ed anticonformismo, e forse cominciano a farci difetto; come dice Raimo – e qui non si può che concordare – «c’è bisogno di intellettuali che facciano i cittadini».

Credits: le foto quassù sono tutte di Carlo Felice Fiammenghi, interior designer, italiano di Philadelphia, uno che ci sa fare. Lo trovate a questo tumblr, che è bello assai. Poi dite voi.

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