Esce in libreria in questi giorni, come secondo volume della collana “nuovo realismo” edita da Mimesis, il nuovo libro di Maurizio Ferraris – Lasciar tracce: Documentalità e architettura.
È il testo di una lezione magistrale che il filosofo ha tenuto a Napoli nel 2011 sulle intersezioni tra architettura e ontologia sociale, ma è anche qualcosa di più. L’idea di interpretare l’architettura, ovvero il costruire, come una produzione di atti scritti è cosa non nuova in filosofia, si pensi a Adesso l’architettura (Libri Scheiwiller 2008) di Jacques Derrida che, grazie a questa equivalenza, riusciva a estendere anche alla scienza del progettare l’atteggiamento che chiamò “decostruzione”.
Ma Ferraris non solo riprende questa equivalenza ma la lega alla sua teoria della Documentalità secondo cui la realtà sociale trova nell’atto scritto la sua essenza e, questo continuo lasciar tracce, sia rappresentativo della natura umana. Quale traccia più duratura ed emblematica, dunque, dell’architettura?
E non tanto del progetto, argomenta il filosofo, ma della realizzazione del progetto: della cosa sociale in sé che ci sopravviverà. Mi si permetta, a tal proposito, di evidenziare anche un risvolto morale dell’architettura in tal senso: come sostiene Harvey in Il capitalismo contro il diritto alla città neoliberismo, urbanizzazione, resistenze (ombre corte 2012) la struttura architettonica della città deve seguire un determinato modello morale: gli edifici devono adattarsi alla persone e alle loro esigenze, e non il contrario.
Tuttavia, come fa notare un altro pensatore, Deyan Sudjic in Architettura e potere: come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo (Laterza 2011) questo modello ideale è attualmente ribaltato in una situazione in cui gli agglomerati urbani seguono sostanzialmente una struttura che sposa le sole esigenze dei costruttori (ed è ovvio il perché, visto che sono coloro che rendono possibile economicamente la costruzione degli edifici).
Questo fenomeno ha fatto si che le città assumessero sempre più delle forme estranee alle esigenze di chi le deve abitare (si pensi alla trasformazione di Milano per l’expo 2015: grattacieli in disuso proliferano, mentre le case popolari scarseggiano): ma questo processo, oltre che biasimabile, è anche ingiusto perché la città deve tenere conto degli interessi di tutti, modificando di continuo le proprie strutture sulla base dei bisogni del popolo, visto che è grazie a tutti i cittadini che la città esiste, grazie ai sacrifici di tutti e al lavoro collettivo.
Quando lasciamo tracce in architettura, dunque, dobbiamo essere consapevoli che sono tracce morali che formeranno l’idea di città e, dunque di uomo, che si avrà anche in futuro: l’architettura è costruzione del mondo (sociale), un atto di responsabilità su cui forse, ancora, non abbiamo riflettuto a sufficienza.