Di questi tempi pare non si possa parlare di Ecuador senza nominare Julian Assange, che pure in Ecuador non è. Augurandomi che non faccia la fine del cardinale Jozesf Mindszenty (15 anni nell’ambasciata statunitense di Budapest, ma parliamo degli anni ’50), pare che la situazione sia molto complessa. Nel frattempo, a riguardo si legge di tutto e di più. Dalle teorie sul complotto cosmico ai deliri di qualche famoso giornalista italiano che pontifica ma sbaglia pure a scrivere i nomi delle città ecuadoriane.
Forzando un po’ la mano, giusto per non riproporre la solita storiella trita e ritrita, vorrei metterla così: nel giro di pochi giorni tre casi di asilo politico che riguardavano l’Ecuador si sono sviluppati, innegabilmente sotto l’influsso della questione Assange, nervo scoperto dei rapporti diplomatici.
Primo asilo, 16 agosto. Il ministro degli esteri Ricardo Patiño formalizza la scelta di concedere asilo politico ad Assange nell’ambasciata ecuadoriana di Londra dov’è rifugiato. L’Inghilterra reagisce minacciando di entrare in ambasciata a prenderlo per i capelli. All’improvviso, qui in Ecuador non si parla d’altro. Al supermercato, nell’autobus, per le strade, tutti hanno un’opinione rispetto alla visibilità del paese, alle sanzioni economiche che si rischiano, al coraggio o all’incoscienza del fondatore di Wikileaks.
Le considerazioni più quotate sono:
a) Abbiamo ragione, le minacce inglesi sono la prova che il colonialismo per loro non è finito, chi si credono di essere. L’Ecuador è un paese libero, sovrano e orgoglioso della sua identità (l’altro giorno allo stadio, durante le qualificazioni per i mondiali contro la Bolivia, l’idea era ribadita e amplificata in tutta la sua trasversalità).
b) la classica posizione “nonna Pina”, ovvero “con tutti i problemi che ci sono qui chi se ne frega di questo australiano”.
c) è una mossa di Correa per smarcarsi dalle accuse di limitare la libertà di stampa, anche in vista delle elezioni dell’anno prossimo.
Rispetto a quest’ultimo punto, c’è da dire che Correa ultimamente non se la passa bene con la stampa. A dirla tutta, fin dalla sua campagna elettorale del 2007 aveva messo in chiaro la sua totale opposizione ai media “servi dei potenti”. Dopo l’elezione, i mezzi di comunicazione in mano alle lobby politico-economiche artefici della grande crisi che aveva colpito il paese nel 1999 sono state nazionalizzate, e buonanotte. Alcuni dei responsabili della crisi sono rifugiati negli Stati Uniti, guarda un po’. La tensione fra Correa e la stampa ha visto il suo picco nel 2010, a seguito del fallito colpo di stato. Un editoriale infuocato di Emilio Palacio sul giornale d’opposizione El Universo accusava Correa di essere un dittatore, e di aver autorizzato le forze armate a sparare in un ospedale pieno di gente durante il tentato golpe. Dopo una dura battaglia legale, la Corte nazionale di giustizia ha condannato giornalista ed editori a tre anni di reclusione e al pagamento di 40 milioni di dollari (poi “perdonati” dallo stesso Correa).
Ed eccoci al secondo asilo, concesso il 30 agosto al giornalista Emilio Palacio dagli Stati Uniti d’America, alla faccia della posizione ecuadoriana rispetto ad Assange.
Asilo o no, il governo ecuadoriano ha fatto sapere che Palacio può tornare a casa quando vuole. Intanto, le associazioni internazionali per la libertà di stampa tengono gli occhi puntati sul governo ecuadoriano aspettando una mossa falsa, e dal canto suo Correa approfitta del suo discorso del sabato (quattro o cinque ore di corazzata Potëmkin in salsa presidenzial-ecuadoriana) per lanciare in un modo o nell’altro qualche bella frecciatina alla stampa corrotta.
Sempre in quei giorni, eccoci al terzo asilo, datato 29 agosto, concesso dall’Ecuador al bielorusso Aliaksandr Barankov, accolto nel 2010 per aver denunciato casi di corruzione nel suo paese. L’avvicinamento di Correa al presidente bielorusso Alexander Lukashenko aveva fatto tremare il rifugiato (a giugno, poco prima della visita di Lukashenko in Ecuador, Barankov era stato “gentilmente” spostato in carcere), ma il tribunale ha rigettato pochi giorni fa la richiesta di estradizione per Barankov, forse anche per non cadere in contraddizione con l’asilo al più celebre Assange da poco concesso.
Insomma, chi più ne ha più ne metta. La questione Assange ha creato una serie di reazioni a catena di cui questo è solo un piccolo esempio, una nota a margine. In questa giostra di asili politici, non si può che aspettare la prossima mossa. Dato il sostegno di Putin il russo ad Assange (“il caso è politico”), proporrei che le prossime beneficiare di un asilo in ambasciata ecuadoriana siano le Pussy Riot.
Lettura consigliata: “Dossier Wikileaks. Segreti italiani” di Stefania Maurizi