Latitudine ZeroLe migrazioni

Quindi, eccoci inaspettatamente in Ecuador, diecimila chilometri dopo. Reggaetton che si sparge ad ogni angolo di strada, l'odore di carne di maiale fritta cucinata e venduta in banchetti bisunti a...

Quindi, eccoci inaspettatamente in Ecuador, diecimila chilometri dopo. Reggaetton che si sparge ad ogni angolo di strada, l’odore di carne di maiale fritta cucinata e venduta in banchetti bisunti al parco (ore 9 di mattina), le politiche sociali che funzionano a singhiozzo “ma ci si prova davvero”. Il giorno che siamo arrivati, carichi di valigie da buoni migranti e dopo 18 interminabili ore di viaggio con due poppanti urlanti e annoiati aggrappati addosso, ero troppo stanca per ricordarmi di esistere. Visto però che l’aeroporto è uno dei luoghi di mia maggiore frequentazione (l’afflusso di parenti in visita è felicemente continuo), ho imparato a godere di qualche scena anacronistica che il “non-luogo” per eccellenza mi regala. Ad aspettare i parenti agli arrivi internazionali di Quito c’è sempre una folla accalcata e rumorosa. A tutte le ore del giorno e della notte, praticamente. Palloncini, cartelli, telefoni che suonano: sempre lo stesso scenario, come in qualunque aeroporto del mondo. Però c’è qualcosa in più. L’immagine che più mi ha colpito in questi mesi ecuadoriani è stata l’attesa di una bambina vestita a festa (intendo dire con abitino quasi da comunione, ossia il massimo dell’eleganza di una bambina sui sette anni), mentre aspettava l’arrivo di un parente dal volo da Madrid. Ho notato che stringeva fra le mani una fotografia sgualcita, certamente datata. Era una foto ricordo di interno casalingo (ho sbirciato bene), con tanto di albero di Natale sullo sfondo e una manciata di volti sorridenti in primo piano. La bambina non era presente nel quadretto familiare della foto (e quelle orribili spalline anni ’80 dei vestiti mi hanno fatto retrodatare l’immagine ad una trentina di anni fa). La mamma della bambina, di fianco a noi, era evidentemente sulle spine, e continuava a sistemare la piccola fra fiocchetti e capelli fuori posto: “Sistemati, che arriva la zia”, le diceva in continuazione. Ça va sans dire, l’incontro fra la madre e la zia è stato struggente, così come la presentazione della nipotina, che non aveva mai visto la parente prima di allora e non poteva far altro che cercarla attraverso una fotografia. Il mazzo di fiori che tenevano in mano si è frantumato negli abbracci. Ecco, visto che anche io sono quasi una migrante, voglio iniziare così, con un ricongiungimento familiare che si è realizzato solo dopo tanti, tanti anni. La questione migratoria in Ecuador è particolare, e biunivoca. Una decina di anni fa, dopo la crisi bancaria che ha portato il paese alla dollarizzazione, c’è stata una migrazione di massa verso Europa e Stati Uniti: quasi non ci sono famiglie ecuadoriane senza un familiare espatriato. Importanti studi hanno analizzato la crescita dei bambini che spesso non vedono i genitori per anni, e vengono seguiti dai nonni a tutti gli effetti. Dall’altro lato, l’Ecuador è anche meta di una forte immigrazione dalla vicina Colombia, da Cuba, e dalla Cina. Naturalmente l’apporto cinese è al passo coi tempi: imponendosi economicamente, i nuovi arrivi cinesi rivestono in genere ruoli di prestigio nelle grosse multinazionali incaricate di lavorare alle ricchezze del paese. Tuttavia c’è da dire che il trend della migrazione, con la crisi che ora ha colpito l’Occidente, si sta invertendo, e i rientri in patria di chi ha passato all’estero molti anni ormai sono frequenti. La crisi europea viene raccontata in Ecuador con toni catastrofici: l’altro ieri la radio di stato raccontava storie di emigranti ecuadoriani che in Spagna perdono il lavoro e stanno pensando di rientrare nel paese se la situazione non dovesse sbloccarsi. Cosa meglio di una fotografia stropicciata può raccontare la profonda identità della migrazione? Il distacco, la rinuncia, ma pure il coraggio, la scommessa. In un aeroporto o l’altro, anche in questo momento, qualcuno consuma a cuore gonfio un ritorno o un addio. Si viene e si va.

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