Il dibattito mediatico all’indomani degli episodi violenti accaduti in Medio Oriente e culminati con la morte dell’ambasciatore statunitense è un’altra occasione persa per l’Occidente di riflettere su sé stesso. Il delirio è sempre lo stesso, quello portato avanti fin dall’11 settembre che vuole uno scontro di civiltà tra barbuti inturbantati che strillano come checche, in quest’ultimo caso di fronte a un trailer (e si sa quanto sono brutti i trailer), e un Occidente libero e democratico che chiede scusa per la sua simpatica canaglieria. Questa impostazione si nasconde anche nelle riflessioni più pacate, addirittura in quelle che se ne tirano fuori esplicitamente.
Ma come stanno le cose in Medio Oriente, parola con la quale si mettono insieme popoli e stati con storie diverse? Come in precedenza ho ritenuto fondamentale, gli episodi violenti accaduti lì una settimana fa non sono stati provocati da un lungometraggio ma fanno parte di un evento di tutt’altra natura, accaduto più di un anno fa, che cade sotto il nome di “primavera araba”. Il nome significa rivoluzione, che sta qui nel senso di ri-volgere, ri-voltare (come un calzino) la sovranità, destituire i capi con altri; un fenomeno che in Europa non accade da quasi un secolo, per questo si fa fatica a comprenderlo. Come la storia insegna, in questi momenti il grado di disordine e tensione, e di grande circolazione di idee, è massimo ma la lotta resta sempre quella contro un potere sovrano che si vuole destituire, anche quando si incendia una fittizia ambasciata di Bengasi. Ora, chi è questo potere sovrano? E’ il regime caduto, che altro non era che una rappresentanza occidentale, nel senso di un potere accondiscendente con la politica statunitense.
E’ questo il terreno su cui ci si deve muovere. Lo “scontro di civiltà”, invece, mette in scena una fittizia opposizione tra due blocchi dai contorni definiti. Non esiste niente del genere, è solo la rievocazione di una vecchia guerra che ha già visto un vincitore. Se ci fossero davvero due civiltà, com’erano una volta le fazioni di una guerra, in questo caso alla parte “islamica” e a quella “occidentale” – termini che con i loro nomi indicano già un battesimo occidentale: il mondo religioso e irrazionale contro quello laico e illuminato – corrisponderebbero due economie, due visioni del mondo, due politiche, insomma due identità. Non c’è niente di tutto questo. E’ vero, da qualche parte c’è la sharìa, ma sono etichette occidentali che si nominano solo quando viene lapidata una persona. In verità entrambe le “civiltà” perseguono un’organizzazione del lavoro, della società e della politica sostanzialmente economizzata, la gestione dello stato è ridotta a un affare, la società è per azioni, i guadagni calcolati e i privilegi consacrati. Dove sono queste due civiltà? La differenza è minima. Certo, noi abbiamo “libertà”, “democrazia”, ‘“uguaglianza”, “diritti”, loro no, ma abbiamo anche il coraggio di ammettere che oggi queste parole circolano come merce ad uso e consumo di etichette con tanto di prezzo? Emblematico il fatto che tra queste ce n’è una che non si usa più, forse proprio perché non si può usare. E’ la terza delle tre, quella che viene dopo “libertà” e “uguaglianza”: “fraternità”.
La conseguenza di un dibattito che non si muove su questo terreno e che preferisce muoversi per -ismi, per discorsi fondati su concetti stereotipati, finisce per credere che la miccia di tutto sia la fede e si domanda infine quanto sia giusto dissacrare Maometto. Il fondamentalismo religioso, come il significato della parola ci dice, è la deriva irrazionale di un’identità minacciata che si muove proprio sulla fittizia scena di uno scontro di civiltà, una forma di radicamento esasperato. Se guardiamo il suo casus belli però scopriamo che si tratta anche qui della lotta contro l’oppressore. E chi è questo oppressore? Chi dovrebbe porsi questa domanda, prima di qualsivoglia dibattito sulla libertà di parola, è proprio l‘“Occidente”, quell’ente fittizio che vende libertà ed esporta democrazia.