Nonostante le grandi aspettative, l’ultimo film della londinese Sally Potter è una cocente delusione. In anteprima e in concorso al London Film Festival, ecco la recensione.
Sally Potter è diventata un guru della cinematografia britannica da quando Orlando (1992) lasciò basito il pubblico veneziano, lanciando Tilda Swinton come nuovo modello di divismo androgino degli anni Novanta. Con un passato da enfant prodige del cinema d’avanguardia, ballerina di tango e artista multiforme (ha lavorato per televisione e teatro, dirigendo un adattamento della Carmen), la regista e sceneggiatrice londinese ha uno zoccolo (durissimo) di ammiratori e sostenitori nell’industria, che quasi nulla riesce a scoraggiare.
Non c’è da stupirsi dunque del baccano pubblicitario dedicato al suo ultimo film, Ginger & Rosa. Un baccano ahimé del tutto ingiustificato, come qualche (sparuta, per ora) voce della critica inglese cerca di far notare. Il film è stato presentato a Toronto e a New York e ora arriva al LFF, in anteprima sull’uscita nel Regno Unito – il che forse spiega l’animosità mostrata dalla film industry nel promuoverlo, con il BFI in prima fila tra i finanziatori del progetto. A nulla valgono gli sforzi di talenti come Timothy Spall (ricordate Segreti e bugie di Mike Leigh?) o Christina Hendricks (la procace rossa di Mad Men, a ricordarci che magro non vuol dire necessariamente bello e viceversa), Ginger & Rosa fa acqua da tutte le parti.
Ma veniamo alla storia. Ginger (Elle Fanning) e Rosa (Alice Englert, la figlia di Jane Campion al suo debutto sullo schermo) sono nate nello stesso anno, nello stesso ospedale, nello stesso quartiere di Londra poco prima della fine della guerra. Il padre di Rosa ha abbandonato la famiglia poco dopo la sua nascita, quello di Ginger (Alessandro Nivola, comicamente inespressivo) è rimasto ma conduce una vita da bohemién tra amorazzi e poesia in barca. Ginger e Rosa sono amiche per la pelle fino alle soglie dell’adolescenza, quando le loro strade cominciano a dividersi. Agli inizi degli anni Sessanta, il mondo intero è in fermento e il pericolo nucleare incombe: Ginger sceglierà la via della rivoluzione culturale diventando un’attivista anti-bomba, Rosa opterà per la rivoluzione sessuale. Cosa ne sarà della loro amicizia?
Il trailer ufficiale del film.
Cercando il più possibile di evitare spoiler, vi basti sapere che Sally Potter prende alla lettera il motto femminista “il personale è politico,” rovesciandolo però in chiave superconservatrice e piccolo borghese: la paura di Ginger per la “bomba di fine di mondo” (quanto ci manca la sottigliezza di Stanley Kubrick, accidenti) non è altro che la proiezione di un trauma assolutamente personale, che riguarda in ultima analisi la sua relazione con i genitori – e con Rose.
Tuttavia, per arrivare alla banalità della resa dei conti finale con annesse lacrime parossistiche di Ginger (la povera Elle Fanning ce la mette tutta, ma la sequenza è al limite del ridicolo), è necessario sciropparsi un’ora e mezza in cui il direttore della fotografia (Robbie Ryan, guarda caso già presente sul set di Cime Tempestose di Andrea Arnold..) e il production designer (Carlos Conti) si prendono estremamente sul serio: e allora vai coi cieli azzurri e i prati verdi che stanno così bene col il pel di carota di Ginger, i bollitori vintage e il tweed dei montgomery protestatari, la musica rock che ha fatto storia, e via ricostruendo.
Vien da chiedersi se tutto lo sforzo per ricreare l’atmosfera di un’epoca non sia una scusa, una patina di cultura materiale che va a coprire una trama esilissima e involontariamente comica – alla proiezione per la stampa qualche sonora sghignazzata c’è stata… Insomma, perché appoggiarsi agli anni Sessanta, alla rivoluzione, alla bomba (a quanto pare Sally Potter aveva gli incubi da bomba di fine di mondo per davvero, come racconta in un’intervista al Guardian) per raccontare quello che è, in definitiva, un drammone familiare neanche tanto originale?