Per tanta stampa internazionale (a cominciare da quella italiana), le presidenziali venezuelane del 7 ottobre avrebbero dovuto essere, malgrado i sondaggi dicessero tutt’altro, «elezioni al cardiopalma», con i due contendenti separati appena da una manciata di voti: uno, Henrique Capriles Radonsky, il candidato dell’oligarchia, giovane e arrembante («generoso e coraggioso sfidante» lo definisce Pierluigi Battista sul Corriere della Sera del 9/10), l’altro, Hugo Chávez, malato e sul viale del tramonto politico (ma, sempre secondo Battista, spadroneggiante «come un despota»). Ovviamente, non è andata così: se un dubbio c’era rispetto all’esito elettorale, questo riguardava solo l’entità della vittoria del leader bolivariano. E la vittoria è stata netta, con oltre dieci punti di differenza tra Chávez e Capriles: 55,15% contro 44,25%. E con un’affluenza di oltre l’80%, impensabile in altre latitudini. E nessuno stavolta (ad eccezione di Gianni Riotta, che su La Stampa dell’8/10 parla di «ombra dei brogli», oltre che di «macchina di mazzette, raccomandazioni e paura») ha potuto agitare lo spettro delle frodi, essendo notoriamente il sistema elettorale venezuelano tra i più avanzati e affidabili del mondo intero (per ammissione dello stesso Centro Carter). Ancora Chávez, dunque, per la quarta volta e per altri sei anni, fino al 2019 (salute permettendo).
La dignità dei poveri
La frase più bella gliel’ha rivolta la presidente argentina Cristina Kirchner: «Hai arato il terreno, lo hai seminato, lo hai irrigato e ora ti godi il raccolto». Ma è un po’ tutta l’America Latina (con l’ovvia eccezione dei governi filostatunitensi) a festeggiare la vittoria di Chávez nella convinzione che in gioco, in queste elezioni, non ci fosse solo la continuità del progetto bolivariano ma il futuro stesso del processo di integrazione in corso nella “Patria Grande”, di cui il Venezuela è stato il motore principale.
Ben altra aria si respira invece in Europa (e negli Stati Uniti), dove del presidente venezuelano viene solitamente trasmessa solo una grottesca caricatura. Il capo di Stato «senza dubbio più diffamato al mondo» lo definiscono, non a caso, Jean-Luc Mélenchon e Ignacio Ramonet (La Jornada, 5/10), ricordando come, fin dal principio, Chávez si fosse impegnato a lavorare a beneficio dei poveri e come, a differenza di quel che avviene normalmente con le promesse elettorali, abbia «mantenuto la parola», come gli riconoscono i poveri che lo hanno votato e rivotato per 14 volte. Senza entrare nel dettaglio delle ormai celebri missioni sociali, delle nazionalizzazioni, dei risultati ottenuti nei diversi ambiti della riforma agraria, dell’alimentazione, della politica abitativa, delle pensioni, del salario minimo e via dicendo, il governo di Chávez (che Gianni Riotta liquida come «caudillo reduce da 14 anni di malgoverno») dedica, secondo Mélenchon e Ramonet, «il 43,2% del bilancio statale alle politiche sociali», con il risultato che «il tasso di mortalità infantile è stato dimezzato. L’analfabetismo sradicato. Il numero di insegnanti moltiplicato per cinque (da 65mila a 350mila)». Ancora, il Paese «presenta il miglior coefficiente Gini (l’indice che misura il tasso di disuguaglianza) dell’America Latina» e, «nel suo rapporto del gennaio 2012, la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) stabilisce che il Venezuela è il Paese sudamericano che, insieme all’Ecuador, ha ottenuto, tra il 1996 e il 2010, la più decisa riduzione del tasso di povertà». Non solo: l’istituto statunitense Gallup, che certo non può essere tacciato di filochavismo, «presenta il Paese di Hugo Chávez come la sesta nazione più felice del mondo».
E il presunto deficit di democrazia su cui la stampa pone con tanta enfasi l’accento? Se, spesso e volentieri, i media locali e internazionali lamentano la mancanza di libertà di espressione in Venezuela («Chávez ha, come sempre, negato par condicio televisiva al rivale, controllando l’informazione», scrive per esempio Riotta), in realtà l’80% della stampa scritta è nelle mani dell’opposizione, la quale controlla anche 61 canali televisivi su 111, con un audience che supera il 61%.
Un progetto liberatore, ma con molte contraddizioni
Ma, se i media vedono tutto nero, non si può nemmeno dire che sia tutto bianco. I problemi ci sono, eccome, come ha riconosciuto esplicitamente lo stesso Chávez, impegnandosi a diventare «un presidente migliore in virtù dell’esperienza accumulata»: l’inefficienza dell’apparato burocratico, la corruzione dilagante, la violenza (il tasso di omicidi per 100mila abitanti è passato da 6 nel 1989 a 44 nel 2009).
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