Il cammello, l'ago e il mercatoCaro Abravanel, senza ridurre le diseguaglianze non si cresce più

In un articolo sul Corriere del 10 novembre Roger Abravanel, un ex consulente Mc Kinsey nonché mio amico, sostiene che la sinistra non dedica attenzione sufficiente alle disuguaglianze. Dopo aver p...

In un articolo sul Corriere del 10 novembre Roger Abravanel, un ex consulente Mc Kinsey nonché mio amico, sostiene che la sinistra non dedica attenzione sufficiente alle disuguaglianze. Dopo aver premesso che il dilemma è come ridurre queste senza penalizzare la crescita, afferma che pochi in Italia si lamentano del loro livello, superato nei Paesi avanzati solo dagli Usa ed eguagliato dal Regno Unito.

In Italia, dice, la sinistra vuole aumentare le tasse non per aiutare i poveri, ma per far pagare ai ricchi il costo della crisi; essa vedrebbe ovunque la necessità di “difese” – contro la crisi, per il posto di lavoro, per le pensioni – ma, accecata dalla supposta preminenza del lavoro (sancita fin dalla Costituzione) non capisce che solo il mercato lo crea; perciò difende anche i posti di lavoro improduttivi e crea un apartheid fra lavoratori intoccabili e precari, che nessuno difende. Conclude infine, dopo aver scritto che per ridurre le disuguaglianze e far ripartir la crescita servono rule of law e meritocrazia, chiedendosi se la sinistra “riuscirà a superare quei tabù che l’hanno resa un alleato della destra per creare il Paese più diseguale del mondo occidentale”.

Mi permetto di dissentire da molte di tali tesi, come ha fatto anche Giovanni La Torre su Critica Liberale.it; qui mi concentrerò solo su alcune, a partire dalla disattenzione alle disuguaglianze, che invece sono tema-chiave nel discorso qualificato politico ed economico, anche e soprattutto della sinistra. Se poi c’è troppa “difesa”, è anche perché c’è troppo “attacco”, e non parlo delle ritorsioni sui 19 “innocenti” di Pomigliano, minacciati di licenziamento per ritorsione contro la coatta riassunzione di altri 19 “colpevoli” di essere iscritti alla Fiom nonostante la contrarietà della Fiat. C’è ben altro. Viviamo, nonostante la crisi, una fase storica di grande crescita dei profitti, in contemporanea con forti tagli di ogni erogazione pubblica: una “difesa” che almeno attutisca le conseguenze – perché solo di un attutimento si riesce a parlare – sui più svantaggiati mi pare solo doverosa e se non la fa la sinistra, chi altri la farà?

È vero che sono soprattutto (non solo) le imprese sul mercato a creare lavoro, ma ciò ha conseguenze molto importanti sul livello delle disuguaglianze, che da come le aziende sono gestite è influenzato, e tanto! Le nostre imprese (Abravanel lo sa, per essersene occupato anche lui professionalmente) preferiscono spesso restare piccole e a stretto controllo familiare – sia nella proprietà, sia nel management – piuttosto che crescere, aprendo l’una e l’altro ad apporti esterni.

Tale condotta sconsiglia agli “esterni”, che ne abbiano l’ambizione e la capacità, di entrare in imprese il cui vertice è prenotato dalla famiglia. Limitate nelle ambizioni dalla scarsità di mezzi finanziari conseguente alla chiusura del capitale, inoltre, esse non investono in progetti bisognosi di personale di alta professionalità; manca così la domanda, e di conseguenza l’offerta, di persone che potrebbero spuntare retribuzioni migliori. E la vite si stringe ancora.

Ma a non convincere è la stessa premessa di base, che regge tutto il ragionamento di Abravanel: la pretesa inconciliabilità fra ripresa della crescita e riduzione delle disuguaglianze. Ciò non tanto perché, sul finale, egli stesso ritiene di conciliare i due corni del dilemma, ma perché il dilemma proprio non esiste.

La riduzione delle disuguaglianze darebbe un forte impulso allo sviluppo. Proprio l’aumento di queste nei Paesi occidentali in generale, infatti, è una grande causa della crisi; causa, questa sì colpevolmente da quasi tutti ignorata. Negli ultimi decenni il lavoro ha perso, a vantaggio del capitale, circa il 15% di valore aggiunto (e sì che come redditi di lavoro figurano anche quelli dei super professionisti, forse più assimilabili ai redditi d’impresa). Come ha detto Andrew Haldane, della Bank of England: “Abbiamo assistito, prima, ad una crisi indotta dalle disuguaglianze e, da ultimo, alle diseguaglianze indotte dalla crisi”. Non sarà anche lui un veterocomunista?

Il benessere delle classi medie Usa è drammaticamente sceso negli ultimi trent’anni, se si tien conto dell’inflazione e del fatto che i guadagni di produttività sono stati assorbiti dalla grande abbuffata dei profitti; a tale discesa esse hanno risposto soprattutto indebitandosi, onde sono venuti prima l’enorme aumento pre-crisi dei debiti privati, e poi la fase di deleveraging, che oggi comprime i consumi. L’aumento dei profitti e dei super-redditi ha generato un eccesso dei risparmi sugli investimenti produttivi, che per di più si sono diretti ai Paesi una volta detti emergenti; di qui, nei Pesi sviluppati, l’eccesso di domanda di asset reali in Occidente, il gonfiarsi della bolla e la deflagrazione della crisi.

Bene la rule of law e la meritocrazia chieste da Abravanel dunque, ma riuscirci richiede difficili mutazioni di mentalità, purtroppo profondamente radicate; passerà una generazione prima che se ne veda il frutto, ma per ridurre le disuguaglianze ciò non basta. Ci sono anche altre cose – lunghe e ardue da realizzare come le proposte di Abravanel – che dovremmo fare: ad esempio lavorare per una scuola pubblica ripulita sì da sprechi e inefficienze, ma dotata di risorse adeguate, con insegnanti (cui affidiamo ragazzi e ragazze), che percepiscano il riconoscimento sociale dell’importanza e dignità del loro lavoro.

Dato che sarà un’opera lunga, cominciamo subito, non c’è tempo da perdere, ma nell’attesa che verso la metà del secolo se ne avvertano gli effetti, non vogliamo intanto pensare anche all’oggi? A riequilibrare una bilancia sbilanciata, individuando i modi per recuperare, a vantaggio del fattore lavoro, fette di valore aggiunto affluite al capitale? Con tanti strumenti, anche con quello fiscale. Quando negli anni ’60 il gap fra redditi dei super manager e quello mediano era di alcuni ordini di grandezza inferiori all’attuale, le tasse erano molto più alte, ma non frenavano la voglia di lavorare e lo sviluppo. Il pendolo deve ora tornare a muoversi nell’altro senso. Si ridurranno le disuguaglianze e ne beneficerà lo sviluppo: quello economico, ma anche, direi soprattutto, quello civile. 

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