Trenta denariBanche popolari, mentre il legislatore latita, banchieri e sindacati cercano una via per cambiare

Di riforma delle banche popolari si discute da un buon decennio e forse più. Ma non se ne è mai fatto niente. Questa legislatura è andata, e per la prossima non si possono fare previsioni. Perciò A...

Di riforma delle banche popolari si discute da un buon decennio e forse più. Ma non se ne è mai fatto niente. Questa legislatura è andata, e per la prossima non si possono fare previsioni. Perciò Andrea Bonomi, da un anno presidente della Banca popolare di Milano, ha deciso di tentare una riforma made in Piazza Meda, tramite l’unica leva di cui si può disporre a quadro legislativo invariato: cambiare lo statuto. A gennaio il presidente della Bpm vuole avviare il confronto per «una riforma della governance con il contributo di tutti e dei sindacati, che sia di esempio per il settore: sederci per trovare la pace senza arrivare all’assemblea e fare a cazzotti».

Formalmente le regole di governo societario della Bpm sono già oggi più avanzate di quelle di altre banche popolari. Per esempio, su un impianto dualistico (consiglio di sorveglianza più consiglio di gestione), gli investitori istituzionali hanno diritto a due posti nel consiglio di sorveglianza di Bpm; serve inoltre il voto favorevole di almeno uno di dei due per alcune delibere chiave. Non solo. Anche se arrivato al vertice della banca grazie alla storica associazione dei dipendenti “Amici della Bpm”, di recente sciolta, Bonomi ha fatto saltare la vecchia regola non scritta che riconosceva alle organizzazioni dei lavoratori un diritto di veto o un’influenza decisiva su molte scelte manageriali, a cominciare dalle nomine dei dirigenti.

Che cos’altro si vuole cambiare, a questo punto? Il presidente della Bpm non ha fornito dettagli, ma sostiene di voler muoversi all’interno del concetto di banca popolare (un voto per socio, a prescindere dal numero di azioni possedute) e di una strategia stand alone, escludendo quindi scenari di fusioni per le quali, invece, si comincia a sentire la pressione di Mediobanca, grande alleata di Bonomi. In attesa che scopra le carte, si può tentare di formulare qualche ipotesi. Forse Bonomi immagina un ritorno  al modello tradizionale abbandonando il dualistico; oppure potrebbe voler mantenere quest’ultimo ma ottimizzarlo in modo da trasformare il consiglio di gestione in un vero e proprio management committee. Ancora, potrebbe proporre di introdurre un tetto per i rappresentanti di ciascuna categoria di portatori di interesse: un tot per gli investitori istituzionali, un tot per i dipendenti, un tot per gli altri soci, in particolare per i soci-clienti (in origine, la categoria di stakeholder che fonda le banche popolari). Inoltre, si potrebbe cercare di rendere più fluida la dinamica assembleare, facilitando la partecipazione dei soci, visto che l’incremento delle deleghe di voto in sé non produce grandi cambiamenti e alla fine snatura l’essenza stessa della banca popolare. Infine, c’è il tema, molto delicato, dei quorum deliberativi nelle assemblee straordinarie: un eventuale abbassamento del quorum potrebbe tornare utile nel caso qualcuno lanciasse un’Opa condizionata alla trasformazione in spa oppure in vista di un’aggregazione (gli analisti di Mediobanca, per esempio, caldeggiano una fusione Bpm-Banco Popolare).

Tutte queste modifiche, però, non serviranno granché se la Popolare di Milano non porta risultati (270 milioni di utili promessi nel 2015). Sciolta l’associazione Amici della Bpm, accusata di interferenze e riorganizzata la linea manageriale, firmato l’accordo sugli esuberi, «ora non ci sono più scuse per il top management della banca milanese: la banca deve riprendere il proprio cammino di redditività», ha giustamente detto Massimo Masi, segretario generale della Uilca. Ed è più o meno la stessa cosa che pensano analisti e investitori, a meno di voler fare della riforma della Bpm una telenovela interminabile e una scusa buona per ogni stagione.

Nel mondo delle Popolari, comunque, il fermento non si ferma a Bpm. L’annuncio di Bonomi, infatti, è arrivato nel contesto di una tavola rotonda organizzata dalla Fabi, il principale sindacato del settore bancario guidato da Lando Sileoni, che chiede più spazio per i lavoratori negli organi di vertice delle banche. La segreteria nazionale della Fabi, che nell’ultimo anno aveva assunto posizioni molto critiche sui vecchi assetti della Bpm, ha chiesto di “favorire la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori negli organismi di sorveglianza di tutte le banche popolari, sulla falsariga del modello tedesco, e di dare la possibilità ai dipendenti di diventare soci delle banche di credito cooperativo”. Va ricordato che qualche anno fa l’attuale presidente del Banco Popolare, Carlo Fratta Pasini, fu alquanto possibilista rispetto all’idea di riconoscere una rappresentanza in cda ai dipendenti.

Twitter: @lorenzodilena

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