Nella toccante “Versione di Oscar” di mercoledì scorso Oscar Giannino ha recitato l’elenco degli imprenditori, dei pensionati, dei disoccupati di ogni età che si sono tolti la vita negli ultimi mesi disperati da una perdita apparentemente irrimediabile: quella della dignità. Supportato da Simona Pedrazzini e dalla sua drammatica pagina-verità Facebook “piccoli imprenditori e suicidi di stato” emerge nulla di più di quello che sappiamo già. Ma che non abbiamo nessuna voglia di dire e sentirci dire. A Nettuno ho partecipato a una raccolta fondi per un programma che si chiama “Dopo di noi”. Madri e padri di ragazzi disabili non autosufficienti si chiedono: dopo di loro che ne sarà dei loro figli? Ma già adesso, per chi di loro ha cinquantacinque anni ed è stato messo da parte dal “sistema” lavoro, che ne è di sé e dei propri figli? Qui non è ammessa nemmeno l’opzione suicidio: devi sopravvivere per forza. Claudia, videomaker laureata alla scuola di cinema e perennemente in cerca di ingaggi, mi racconta del padre, poco meno di sessant’anni, licenziato, costretto a pagare per lavorare. E via così.
Eppure in questi mesi di esposizione mediatica del nuovo che avanza non ho sentito né un Politico 2.0 né un Giornalista 2.0 citare il loro duepuntozerismo a favore di chi ha più di cinquant’anni. Tutti appiattiti a sparare release e a corteggiare i “giovani” con quello che potenzialmente rappresentano. I politici per ovvie ragioni elettorali, i giornalisti per gonfiare la loro piccola bolla digitale: tanti follower, tanta reputazione. Vi ricordate quando con orgoglio citavano tanti nemici, tanto onore? Il concetto di start-up nelle definzioni di tecnici, politici e giornalisti è sinonimo di “giovane”. E sillogicamente 2.0 vuol dire giovane. Ma chi l’ha detto?
Farciti da questa demagogia 2.0 ci siamo lasciati sfuggire un paio di cose fondamentali. Primo: che uno dei nostri drammi sociali più subdoli e scioccanti, la disoccupazione dei cinquantenni, è forse anche una delle opportunità che abbiamo in mano per poter rilanciare il Paese e fronteggiare gli effetti estremi citati da Giannino. Secondo: che a volte (non sempre) è meglio dare un’occhiata avanti anziché di fianco: dagli Stati Uniti, patria di duezerismi vari e culla dello startuppismo più radicale i dati ci dicono che start-up e giovani sono, in parte, un falso mito.
Kauffman fa presente che dal 1996 al 2011 i giovani nuovi imprenditori della fascia demografica 20-34 anni sono passati dal 34,8 al 29,4% mentre i super boomer 55-64enni sono esplosi dal 14,3% al 20,9%.
Cosa vuol dire? In primis quello che sappiamo già, ovvero che i Baby Boomer si trovano ad affrontare la fase-crisi, ma anche che non se ne stanno lì a guardare una volta che qualcuno li ha parcheggiati: più tempo a disposizione, esperienza, qualche risparmio da parte e la scoperta del social come terra di conquista e area della possibilità sembrano contenuti solidi anche per chi non nacque digitale. E loro modestamente non lo nacquero. Tuttavia, davanti a questi dati oggettivi invece di inventarci e istituzionalizzare un nuovo modo per promuovere l’esperienza e la capacità di centinaia di migliaia di persone a spasso, gente con lauree e skill e conoscenze e esperienza, celebriamo quello che pensiamo ovvio e ovvio invece non è: giovane non fa rima automaticamente con successo. Vorrei chiarire senza essere fraiteso nemmeno per un secondo che sono convinto che il futuro del Paese siano i giovani, sono arci-convinto che i giovani non siano degli “sfaccendati, privi di riferimenti, alla ricerca solo di conquiste facili, con poca voglia di imparare o di impegnarsi” e ho già avuto modo di dire che la grande fortuna dei giovani di oggi sia quella di essere chiaramente consapevoli dell’inesistenza della pensione domani. Mito che ha portato a livello zero il desiderio di molti connazionali cinquanta/sessantenni bruciando la loro capacità di reinventarsi – basiti da organizzazioni iper-protettive e dalle coccole del concetto di carriera – e restare inermi davanti allo sprofondare dell’isola che avevano sognato tutta la vita. E vorrei anche chiarire che sono ben consapevole delle dinamiche del lavoro che contempla l’estremo del licenziamento. Però tra mettere in mano tutto ai giovani, lasciare a casa gente arci-competente solo perché aveva raggiunto una posizione e un livello di reddito generato dalla stessa organizzazione con il meccanismo “promuovo a manager anche se un manager non serve” e allo stesso tempo pontificare di startup e 2.0 c’è una via di mezzo che si chiama realtà, si chiama stato delle cose, ma al tempo stesso si chiama anche visione e politica.
Il rapporto del Ministero dello Sviluppo Economico titola retoricamente: “Restart Italia: perché dobbiamo ripartire dai giovani, dall’innovazione, dalla nuova impresa”. Già perché? E gli altri? Non possiamo ripartire tirando dentro anche “gli altri”? Non sarebbe più attuale, più contemporaneo, più reale, più (che noioso dirlo) “innovativo” guardarsi attorno e immaginare il futuro in base a un presente fatto di giovani laureati/disoccupati ma anche di menogiovani/laureati/competenti/disoccupati? Improvvisamente a pagina 106 di questo rapporto appaiono, così, alcuni di questi altri:
“La metà degli insegnanti in Italia ha più di 50 anni e meno del 2% è under 35. Questo vuol dire che a loro volta sono stati sono stati seduti tra i banchi di scuola tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80. Si sono formati cioè in un’epoca analogica. Nonostante il dato generazionale sia solo un indicatore della predisposizione all’innovazione dei nostri formatori, è pur vero che la loro esperienza ed esposizione alle dinamiche della tecnologia debba essere accompagnata e sostenuta, per farne i primi interpreti del mondo di oggi. Vanno aiutati a leggere le trasformazioni attuali – la nuova geografia e la nuova tecnologia – perché possano diventare gli allenatori dei nostri ragazzi”.
Lodevole inziativa, ma che visione è quella che si preoccupa solo di formare gli insegnanti che dovrebbero educare i nostri ragazzi? Fondamentale (e un tantino utopistico) certo, ma gli altri? Dove sono finiti i suicidi di Giannino? Gli imprenditori costretti a chiudere, i pensionati senza un riferimento se non la Posta, le migliaia di disoccupati che sanno fare bene un business plan, disegnare un processo, far funzionare una linea di produzione? Non si potrebbe “includerli” by design? Tipo obbligando qualsiasi junior-start-up che dir si voglia ad avere qualche Baby Boomer nel proprio board? Sfruttando le loro competenze e conoscenze? Oppure sostenendo in modo esplicito con agevolazioni mirate, settoriali, esclusive le boomer-start-up e obbligando loro, a loro volta, ad avere dei millenial nel board? Ho sentito solo l’Onorevole Antonio Palmieri e il Senatore Luigi Vimercati parlare di lavoro, start-up e over-50 nell’agenda digitale. Nessun altro se non forse la Pfizer ma il tema, qui come ben sapete, non era il lavoro quanto, se mai, il dopo-lavoro.
Nel Brandeburgo tra altri progetti del Ministero Federale del Lavoro a favore degli ultracinquantenni, si preoccupano della forma dei disoccupati over-50. Banalizzare la cosa accusando il governo locale di aver dato un contapassi per spronarli a restare in forma è un esercizio superficiale. Certo, è una trovata perfetta per far notizia e ironia e mi immagino cosa sarebbe successo da noi se la Fornero o il suo prossimo successore avesse dato un contapassi agli esodati, ma il punto è considerare il problema anziché fare demagogia. E in Germania ci stanno provando, della serie: se ti voglio includere ancore per fare la tua parte (e per dirla tutta anche per cercare di limitare il costo sociale delle eventuali tue patologie dovute alla tua sedentarietà che vanno da malattie cardiovascolari al devastante rischio depressione) ti voglio pronto e in forma. Caro disoccupato cinquantenne ti dovrai “scontrare” con i rampanti millenials che secondo Campo Dall’Orto
“elimineranno dal vocabolario la parola fallimento, sostituendola con successo, da ottenere grazie ad arguzia e intelligenza. Una generazione smart&fun”.
Pensa, tu considerato deadman a trovarti in battaglia contro gli smarfun.
La faccenda del confronto generazionale non è certo un aspetto secondario. Le organizzazioni si trovano a dover gestire la questione di come far convivere gli estremi demografici in azienda. Ne parla bene Tiziano Botteri nel suo libro S-age Management che propone di “incoraggiare i datori di lavoro ad assumere persone mature e a promuoverne l’aggiornamento professionale continuo” e anche io ho toccato il tema in Lavorare o Collaborare? intervistando hr manager e imprenditori alle prese con la stessa sfida. Maurizio Ferrera sul Corriere di ieri (p. 58 “L’illusione della staffetta tra generazioni”) fotografa bene il meccanismo secondo cui si crede che il posto di lavoro dei giovani corrisponda all’abbandono dello stesso posto da parte degli anziani.
“Se guardiamo ai grandi numeri non troviamo nessuna correlazione tra i tassi di occupazione degli anziani e i tassi di disoccupazione dei giovani. In altre parole: non è vero che se gli anziani si tolgono di mezzo, più giovani trovano lavoro. Le economie non sono scatole rigide, tanti fuori, tanti dentro…E’ solo dove i fattori come competitività, innovazione, capitale umano, diritto del lavoro e così via si combinano in modo virtuoso che l’occupazione aumenta per tutti, giovani, anziani, uomini, donne”.
A chi tutto questo appare come una partita da minor league rispetto alle centinaia di questioni sul tavolo della politica invito, oltre semplicemente al guardarsi attorno, a ripassare un paio d’anni di titoli sui giornali e ad ascoltare, armandosi di coraggio, la Lista Giannino. Perché il tema ha a che fare con la dignità del concetto di persona, cittadina di una «Repubblica fondata sul lavoro». O se preferite ha a che fare con ciascuno di noi. Nessuno escluso.