Hic sunt leonesLa diplomazia triangolare. Nixon, Kissinger e i giorni nostri

Ripercorrendo con la mente i momenti salienti della campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti ,in tema di politica estera, un dato rilevante appare in tutta la sua evidenza: l'incapac...

Ripercorrendo con la mente i momenti salienti della campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti ,in tema di politica estera, un dato rilevante appare in tutta la sua evidenza: l’incapacità dei Repubblicani nel configurare un’azione internazionale americana che preveda e tenga in considerazione gli altri elementi di potere della scena globale. Così, l’ansia per l’ ” american century” perduto ha reso miope la visione prospettica di Romney e compagni, partorendo una comprensione della dinamica estera flebile, in molti punti inevitabilmente simile a quella democratica, ma più rigida nei toni, denotando un sostanziale disagio per la constatazione amara che il mondo di oggi non poggia più su un centro americano, ma su numerosi “capitelli” regionali. Alla luce di tutto questo, gioverebbe ai Repubblicani americani, forse anche ai democratici , finanche a noi europei,rispolverare alcuni passaggi della storia Internazionale, in particolare quella contraddistinta dall’operato di Nixon e Kissinger nei primi anni ’70, per comprendere come una visione accorta e realista delle dinamiche internazionali, scevra da considerazioni ideologiche ma non esente da una buona dose di real politik di potenza, possa aver messo in moto un processo virtuoso per gli equilibri mondiali, precorrendo, nelle sue linee guida, alcuni elementi chiave dello scenario mondiale attuale, dandone un’equilibrata chiave di lettura. Richard Milhouse Nixon non era un gran conoscitore della realtà internazionale,come quasi nessuno dei suoi colleghi Presidenti alla Casa Bianca. Tuttavia Kissinger, dalle pagine della sua opera regina, “Diplomacy”, gli riconosceva un’innata capacità di “catcher” delle dinamiche geopolitiche, unita a una buona dose di razionalità ( seppure spesso latente nel Nixon “nazionale”). Il realismo del professore di Harvard unito all’intuito internazionale di Nixon presto ebbero ragione nell’individuare una via di fuga dal pantano di sangue e ideologia che era divenuto il Vietnam e nel contempo ristrutturare l’azione politica internazionale americana sulla base dell’interesse nazionale applicato alla realtà globale. E alla guerra fredda con l’Urss. La “Dottrina Nixon” o di “Guam”( dall’isola nel Pacifico in cui fu pronunciata la prima volta il 22 luglio 1969) riconfigurava l’impegno internazionale americano proponendo un mantenimento dell’azione statunitense fedele ai trattati vigenti ( v. la NATO), ma sganciava la Casa Bianca da pericolosi impasse bellici in altre regioni del mondo, soprattuto Africa e Asia Orientale e Meridionale). Questa azione programmatica, meditata a lungo dal Presidente in collaborazione con Kissinger, poggiava su vari argomenti, per certi versi convincenti e lungimiranti. In primo luogo, le azioni belliche lontane dal suolo nazionale, a maggior ragione se per motivi prettamente ideologici, trovavano sempre meno appoggio e disponibilità nell’opinione pubblica americana . In secondo luogo, un’Unione Sovietica ormai potenza nucleare doveva necessariamente modificare la percezione di forza intrinseca degli Stati Uniti ( da qui anche le motivazioni dei percorsi SALT e ABM). Terzo, non meno rilevante, nuovi attori internazionali stavano ormai valicando la linea invisibile che separa una potenza di livello medio da una di respiro internazionale non trascurabile. Soprattutto la Cina. Ecco quindi che il tentativo di una nuova “Distensione” di portata globale doveva essere programmata per Kissinger e Nixon, secondo anche lo studio di Litwak, tramite un forte legame tra la “Dottrina Guam” e il concetto di “linkage”, per cui gli eventi in differenti parti del mondo sono collegati fra di loro e che il problema della pace riguarda non solo l’ambito militare. Due elementi risultano rilevanti e, ai fini di questo articolo, fondamentali: la consapevolezza, soprattutto di Kissinger, di un’America inevitabilmente in fase di lento declino e di passaggio dalla “dominance” globale alla “leadership” internazionale; la considerazione, di ampia prospettiva, di un inevitabile legame tra le varie aree “calde” del globo, collegate e collegabili non solo tramite il warfare ma anche in special modo grazie all’azione diplomatica, specie se strutturata su una configurazione trilaterale. L’acutezza di percepire la necessità americana di aprirsi alla Cina sia per regolarizzare i propri rapporti con il Celeste Impero sia per dare una spallata di proporzioni rilevanti all’Urss, oramai in burrasca con Mao e compagni, rappresenta forse uno dei massimi colpi di genio dell’azione diplomatica del XX secolo. Nixon e Kissinger realizzarono un quadro complesso e all’epoca considerato ardito, molti infatti temevano una reazione violenta dell’Urss all’apertura di contatto Usa-Cina, che prevedeva soprattutto di poter contare sulla maggiore pragmaticità cinese rispetto alla rigida concezione dogmatica della politica estera sovietica. Non solo. Aprendosi a un Paese considerato come nemico, i due statisti americani compivano un altro passo di intelligente pianificazione : é imprudente lasciare in isolamento un reale o potenziale avversario internazionale, poiché forte cresce il risentimento e la sindrome d’accerchiamento conduce spesso ad azioni miopi e gravide di conseguenze. Inoltre inclusione significa anche creare un legame e impedire che la controparte si possa sentire totalmente libera nel suo agire. Sfruttare la rivalità Cina- URSS , inserendo gli Stati Uniti come ago della bilancia e possibile intermediario, fu una mazzata politica di non poco conto per l’establishment sovietico, un colpo politico che ebbe, come si sa, profonde ricadute, positive, sull’equilibrio internazionale. Questa lunga filippica storica, ovviamente sintetica, porta alla solida considerazione che gli Stati Uniti, forse anche i fragili alleati europei, debbano necessariamente tornare a sfruttare quanto fatto di buono, in materia di pianificazione geopolitica, negli anni ’70. L’idea di Gaddis che accosta in molti punti Kissinger a Kennan, proponendo quindi la politica di distensione come inserita nella più generale idea di ” containment” del pericolo sovietico, ci soccorre nel tracciare una quadro odierno fatto di partite internazionali spesso triangolari, in cui gli Usa, non più egemoni ma leader tecnologici e punto di riferimento grazie al proprio peso relativo, si inseriscono in vari agoni internazionali favorendo l’attore che meno pregiudica il ruolo americano e ostacolando viceversa il “player” più minaccioso. La real-politik odierna impone quindi un fitto legame triangolare, specie nel tanto caro pivot asiatico orientale, che cinga la Cina ( ora non più grimaldello antisovietico, ma pericoloso, forse unico, antagonista sulla scena globale) di un cordone d’alleanze e partnership tecnologiche capace di minare il primato regionale cinese o , quanto meno di renderlo meno certo. In quest’ottica deve essere letto il legame sempre più forte tra Usa e India per riequilibrare il “sea-power” nella macro regione oceanica dell’ ” Indo-Pacifico” per contenere la spinta cinese. Sempre a tal scopo, sfruttando l’approccio concettuale di Kissinger, si inserisce l’impegno americano a sostegno delle medie potenze del sud-est asiatico, come Indonesia, Malesia, Filippine, per non parlare del consolidato e rafforzato rapporto con Corea del Sud e Giappone e in particolare con l’Australia, che mira sempre più a una politica di prima caratura nel Pacifico. Questo, a grandi tratti, il sistema di alleanze di nixoniana memoria in Asia. E in Medio Oriente ed Europa orientale? Qui gli Usa non possono prescindere dall’azione congiunta, seppur autonoma in alcuni contenuti, dell’Unione Europea. Peccato che questa compattezza d’intenti non si verifichi minimamente: lo si é visto nel caso prima della Libia, poi della Siria( ancora drammatico) e infine negli ultimi sanguinosi eventi in Palestina, tra Israele e Hamas. Questa reticenza all’azione congiunta, denotando una verosimile incapacità politica sul piano estero, individua due grandi danni che l’UE sta compiendo: il primo é quello di fornire un’immagine di dialogatore internazionale inaffidabile e tortuoso ( molto meglio relazionarsi con alcuni singoli paesi, anzi, sfruttare le loro rivalità ). Il secondo é quello di impedire agli Usa di liberare ulteriori forze e pressioni economico-diplomatiche sul versante caldo del Pacifico,( senza trascurare l’Asia Centrale e l’Iran) essendo costretto a rimanere sulle posizioni calde del Levante mediterraneo e, in misura minore, su quelle dell’Europa orientale verso l’avversario di sempre, grande o piccolo che ora esso sia, la Russia. Abituiamoci comunque ad un mondo sempre più esemplificato, dal punto di vista delle relazioni internazionali, da un enorme soffitto che poggia su un contrafforte centrale ( gli Usa), sostenuto da uno aggiuntivo ( l’Unione europea) ma che scarica molto del suo peso su numerosi capitelli più o meno periferici ( Cina, India, Russia, Brasile e altri), che equilibrano il peso mondiale. Sarà in grado il contrafforte d’aiuto europeo a sostenere il pilone americano? In caso negativo, il soffitto inizierà inevitabilmente a pendere da un lato, probabilmente quello che da a Oriente.

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