C’è aria di festa. E giustamente i negozianti sono quelli che hanno più motivo di festeggiare. Le vetrine brillano. Persino i sampietrini luccicano. La luce cola dalle luminarie e trabocca dalle vetrine, scorre, si riversa sui viali e inonda le piazze, s’insinua nelle viuzze e veglia sui portoni.
Dovrò addentrarmi ancora di più nella periferia, esplorarne meglio i margini e forse scoverò un angolo di discrezione per la mia clandestinità.
La parola Natale la associo ai primi veri brividi da freddo e al momento magico quando come d’improvviso le vetrine cominciano a scintillare. Sembra si festeggi, in questo periodo, un santo protettore delle vetrine o un qualche suo collega propiziatore degli affari.
In questo periodo è quasi impossibile la clandestinità e mi sento sempre in primo piano, esposto come un sacerdote sull’altare, o un condannato sul patibolo.
Sarà che in questo periodo la gente è più elegante e allora io nei miei cenci sento maggiormente la mia diversità, che mi fa di un umore decisamente poco natalizio. Per carità, ci tengo al mio decoro e i miei abiti sono pur sempre dignitosi. Se non fosse per il periodo, in quanto a vestiario, passerei tutto sommato inosservato. Come dire: non sono io che sono trasandato, sono gli altri che a Natale diventano più eleganti.
D’altronde mi trovo in terra straniera, fra gente che ha usi e costumi diversi, fra gente che prega un Dio diverso. Un Dio misericordioso (davvero misericordioso) che dalle vetrine si erge in tutta la sua magnificenza e assiste benevolo le sue creature mentre si scelgono i doni che fra non molto si scambieranno.
Dunque, mi dico, è nella natura delle cose che io non senta questa festa. È nella natura delle cose che mi senta escluso dal calore e dall’affetto che la gente in questo periodo ostenta mentre si scambia.
Poi che mi lamento a fare? Ho sempre guardato con fastidio, anche in patria, ai vari assembramenti festaioli.
Comunque Babbo Natale, se sei davvero buono come dicono portami in dono una sanatoria.