Due puntualizzazioni su Pier Paolo Pasolini.
La prima grazie a un lucido articolo di Guido Vitiello nel supplemento “La lettura” del “Corriere” di ieri intitolato “Più Sciascia meno Pasolini” che, detto così, potrebbe sembrare solo una predilezione come un’altra fra due figure intellettuali, quando invece è una precisa scelta di campo in relazione non solo agli stili personali – che restano pur sempre l’angolo visuale, l’intonazione, con cui un intellettuale vede e ascolta il mondo-, ma anche su specifiche riflessioni circa atteggiamenti collettivi troppo ricorrenti nella vita pubblica italiana perché non si sa né notomizzarli né riconoscere al loro ciclico apparire.
Uno di questi è lo spirito inquisitorio, molto vivo in Pasolini (forse per via del sul suo lato cattolico e paolino) e riconosciuto e avversato invece da Sciascia (che pure apprezzava per altro verso Pasolini) in molti aspetti della vita nazionale. Mi riesce molto facile essere pertanto d’accordo con Vitiello quando mette l’accento su questo spirito inquisitorio che circola oggi in Italia grazie anche (ripeto anche) al magistrato inquirente Ingroia, il quale nel libro-intervista di Lo Bianco e Rizza Antonio Ingroia. Io so in libreria in questi giorni (Chiarelettere) reca già nel titolo il celebre apoftegma di Pasolini presente nel suo articolo sul “Corriere” del 14 novembre 1974 (ora in Scritti corsari ) contro la Dc, che esordiva proprio con un «io so», ma aggiungeva subito dopo, «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi».
Un’allocuzione espressa in forma di accorata serie di anafore ipnotiche, che può andar bene come gesto poetico ma che certamente non può ridursi ad allusione impotente e quindi totalmente indebita presso un magistrato (che deve parlare per atti e processi), che diventa poi insulsa e retorica quando il magistrato lascia il posto al cittadino o al sociologo, e che mi sembra acquistare valenze allarmanti e intollerabili presso quei tanti inquisitori feroci giunti all’ultimo stadio che circolano oggi nella blogosfera, gente senza memoria che ha fatto strame dell’intera storia politica di un uomo politico come Giorgio Napolitano.
L’inquisitore in servizio permanente effettivo circola sugli schermi televisivi e sui blog ed ha l’aria accigliata e sofferente di chi s’è messo a presidio del bene con lo sguardo truce puntato su tanti malvagi da lui già individuati e tenuti sott’occhio. È colui che ha fatto una massima della vecchia battuta da gesuiti del Paraguay e da sindaci dal tratto sudamericano per i quali «il sospetto è l’anticamera della verità». Sciascia, scrive Vitiello, «questo persecutore proteiforme poté osservarlo all’opera sotto mille maschere: era lui che suppliziava Aldo Moro, si accaniva contro Enzo Tortora (che volle essere sepolto con una copia della Colonna infame introdotta da Sciascia), fomentava un’antimafia fanatica e sospettosa – e la giustizia di guerra – come corso normale della vita della nazione. Per i cacciatori di eretici Sciascia aveva l’orecchio assoluto, sapeva riconoscerli dietro la maschera santimoniosa del buon samaritano». Conclude Vitiello con queste parole: «Se gli Scritti corsari, uno dei vangeli minori dell’intellettualità italiana, non mancano mai dagli scaffali, La palma va a nord, preziosa antologia dello Sciascia polemista curata da Valter Vecellio, è introvabile dal 1982. Nel Paese degli inquisitori travestiti da eretici, ci sono eredità che è più prudente non riscuotere». Più chiaro di così non si poteva dire.
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Altra precisazione mi viene sollecitata da un passo contenuto nell’articolo di Pierluigi Battista di venerdì scorso sempre sul “Corriere”, Poveri Elfi, regalati ai «Fascisti», a proposito della rozzezza intellettuale della sinistra italiana che avrebbe consegnato Tolkien, snobbandolo e mal comprendendolo, alla destra estrema. Questa insipienza della sinistra per risonanza ricorda a Battista l’analogo trattamento verso Pasolini con queste parole: «Del resto lo stesso Pier Paolo Pasolini, acerrimo avversario di un modello in cui la razionalità industriale e il consumismo materialistico siano egemoni, venne accusato di essere un «reazionario» (e dunque quasi un “fascista”) solo perché contrario alla dominante cultura industrialista che permeava la sinistra».
Io penso invece che qualche ragione ci sarà pur stata se Pasolini è stato iscritto d’ufficio a forme di reazione e sia stato definito un “reazionario” seppur di sinistra“. Infatti nessuno a sinistra s’è sognato di definirlo tout court reazionario di destra, quindi quasi un fascista, come, che so, un Julius Evola, anche se certa destra ha sentito tanta “aria di famiglia” nei suoi scritti che in qualche modo l’ha annesso al proprio Pantheon. Ora, questa ragione probabilmente è la categoria dell’anticapitalismo romantico cui Pasolini spesso indulgeva soprattutto nel celebre articolo delle lucciole sul “Corriere” del 1° febbraio 1975 (Scritti corsari) in cui scrisse che avrebbe dato “l’intera Montedison per una lucciola”.
È noto che Marx, imbevuto di idealismo hegeliano, riteneva che solo dalla fase matura del capitalismo (e dell’industrialismo) si sarebbe potuti passare dialetticamente alla società socialista. L’assunto filosofico di fondo, con la sua base di materialismo storico e soprattutto dialettico, è che lo sviluppo, la maturazione e la vittoria del modo capitalistico di produzione sono condizione necessaria per il suo stesso rovesciamento attraverso la rivoluzione proletaria. Anche dal punto di vista tecnologico la società borghese deve raggiungere la sua piena maturazione, non fosse altro perché solo così scoppierebbero tutte le sue contraddizioni, e il capitalismo, col suo stesso sviluppo, si creerebbe i suoi “becchini”.
In questo schema, che è hegeliano prima che marxiano, non c’è posto per sguardi rivolti all’indietro, rimpianti per il tempo andato o lamenti sulle rovine del mondo, né per miti regressivi e consolatori. Il marxismo hegeliano, col suo freddo razionalismo storico e con la sua rocciosa fiducia nel travolgente progresso (è una ideologia infatti “progressista” se quella di Pasolini è “reazionaria”), non ha avuto mai sguardi teneri verso le società arcaiche, le piccole patrie e gli idilli agresti. Tant’è vero che in questo schema implacabile e feroce, anche il colonialismo trovava una sua ragion d’essere. A Marx per esempio, l’Inghilterra appariva il demiurgo del cosmo borghese e il colonialismo… una necessità storica perché faceva piazza pulita di società sì idilliche, ma anche arcaiche e premoderne e tarlate dal dispotismo orientale. Il colonialismo inoltre determinando la rivoluzione sociale di questi popoli socio-culturalmente arretrati, e, facendosi strumento inconscio della storia, prepara le basi oggettive del socialismo su scala mondiale. (La dominazione britannica in India, art. apparso sul “New York Daily Tribune” del 10 giugno 1853).
Reazionario è dunque chi si oppone al progresso della storia così intesa. Pasolini resta tuttavia “di sinistra” per quell’attenzione alle classi “più numerose e più povere” con cui fin dai tempi di Saint-Simon si intese indicare il proletariato, che nel caso di Pasolini era però il Lumpenproletariat di Marx, ossia il sottoproletariato, i borgatari, anch’essi tuttavia, nella visione marxiana, non destinatari di particolari missioni filosofiche o storiche.
Insomma oggi fossero redivivi Marx ed Engels non approverebbero né Pasolini né tanto meno i no-global. C’è da compiacersi? Non saprei dire. Ma i termini della questione sono questi.