di Alberto Mucci
Politologo, scrittore, giornalista. Michael Walzer è docente di sociologia e filosofia a Princeton, direttore della rivista anima della sinistra americana Dissent e assieme a Noam Chomsky una delle voci più influenti e critiche d’oltre Atlantico. Dallo scoppio della Grande Depressione, da quando Occupy Wall Street (OWS) è scomparsa dalle piazze, mentre la sinistra europea arranca davanti all’avanzata ideologica dell’austerità si chiede imperterrito cosa possa rinvigorirla, darle forza e farla tornare a suscitare emozioni forti nell’elettorato, in America come sul Vecchio continente. Per Walzer la chiave è una sola: ricominciare a parlare di “eguaglianza” e “merito”. Ha trovato il tempo di parlare con Europa.
Negli ultimi mesi negli Stati Uniti è successo molto, anzi moltissimo: qual è la sua percezione dell’umore del paese?
Hehe. Bella domanda. È difficile dirlo con certezza, soprattutto per uno come me che se ne sta rintanato la maggior parte del tempo in università, in quella bolla che è Princeton. Ma francamente penso che non sia cambiato più di tanto: le aspettative di riforma in America sono poche, la politica distante, la stanchezza molta. E intanto il cammino verso destra che la politica americana ha cominciato nei primi anni Ottanta continua imperterrito senza prospettive di mutamento all’orizzonte. Obama non è nulla più che un centrista e non ha mai avuto ispirazione di essere altro.
Ma davvero non nutre alcuna speranza per un secondo turno di Obama?
Ok. Lo ammetto: qualche speranza in fondo in fondo la nutro. Infatti bisogna dire che la coalizione che ha portato il presidente alla vittoria – donne, immigrati, giovani e liberal –, ancora più che nel 2008, è una coalizione che tende a sinistra, potenziale base di un’agenda progressista. Ma nonostante ciò posso dirmi sicuro soltanto di una cosa. Obama punterà molto del suo capitale politico sulla riforma dell’immigrazione data la debolezza dei repubblicani sulla questione e la volontà del partito di cambiare la sua immagine anti-ispanica in vista delle prossime elezioni. Sul resto però rimango fermo: non nutro grandi aspettative di cambiamento.
Si riferisce alla riforma di Wall Street?
Sì. Credo proprio che la riforma delle banche così dette too-big-to-fail, dei fondi hedge, dei fondi di private equity e delle tecniche predatorie usate dalle banche dovranno aspettare ancora molto tempo. Anche dopo la firma del Dodd-Frank Act (la legge che avrebbe dovuto riformare Wall Street, ndr.) non si è fatto quasi nulla. Verità è che quella legge langue in qualche angolo nascosto del Congresso nella speranza che sia dimenticata.
È più di un anno ormai che non si sente parlare di Occupy Wall Street (OWS), cosa pensa del movimento dopo tutto questo tempo?
Domanda difficile. Un ruolo sicuramente l’ha avuto: quello di portare il tema dell’ineguaglianza al centro del dibattito politico americano. Riconoscimento sottolineato dal discorso dello State of the Union di Obama, ma di cui poi si è parlato sempre meno finché il tema non si è spento quasi del tutto. I membri, gli attivisti del gruppo si sono lentamente mischiati alla società civile, hanno cominciato a collaborare con le Ong o le associazioni di beneficenza fino a confondersi con loro e non essere più riconoscibili.
Perché secondo lei sono scomparsi?
I motivi sono tanti. Prima di tutto il fatto che i leader del movimento non hanno mai voluto identificarsi come tali. E questo, al di là della retorica, è un problema perché senza un leader è difficile coagulare le forze. Punto secondo, e questo è il più importante, Occupy Wall Street non è riuscito a suscitare un’emozione, a far trapelare un’idea di come avrebbe voluto vedere l’America di dieci anni dopo.
OWS su cosa avrebbe potuto incentrare un movimento capace di stupire e muovere le persone?
Niente di nuovo in verità. Non ci sono trucchi. Bisognava tornare ai fondamenti: in questo caso l’eguaglianza. In America mai come oggi ci sono disparità tra le persone, tra i bianchi e i non, tra le diverse classi sociali. Se prima una gran parte si definiva media, oggi chi si reputava tale si sente sempre più insicuro e povero. Se si creasse un movimento incentrato sull’eguaglianza avrebbe senza dubbio un enorme impatto ideologico.
Mi chiedo se un’idea del genere possa funzionare soltanto in America dato che in Europa e in Italia l’eguaglianza mai come oggi è sotto accusa. È come se molti la reputassero indirettamente uno dei motivi della crisi del debito.
Penso sia un’interpretazione sbagliata dello stato delle cose. Eguaglianza e merito non sono assolutamente antitetici.
Possono – anzi devono – co-esistere. Guai se non fosse così. Anzi direi che la meritocrazia è uno degli strumenti essenziali per mantenere l’eguaglianza altrimenti si finisce per favorire la creazione di oligopoli di privilegio.
C’è un teorico che sa indicare come possibile “guida intellettuale” di un nuovo riformismo di sinistra?
Non saprei indicarti una persona specifica, ma posso dirti con sicurezza che non deve venire da anziani come me. Deve venire da pensatori giovani. Guarda Dissent, troverai moltissimi spunti. In primavera mi ritirerò dalla carica di direttore. Non so chi prenderà il mio posto, ma sarà comunque un intellettuale cui fare riferimento.
Questo articolo è originariamente apparso su: Europa