Così è…se traspare. Storie di finanza e (mancanza di) trasparenzaPerotti e Fassina d’accordo: la spesa pubblica è incomprimibile

In un articolo del Sole 24 Ore Perotti dichiara che i tagli alla spesa millantati dalla destra non paiono fattibili, a meno di rischi di ordine pubblico. È la stessa obiezione che Fassina ha oppost...

In un articolo del Sole 24 Ore Perotti dichiara che i tagli alla spesa millantati dalla destra non paiono fattibili, a meno di rischi di ordine pubblico. È la stessa obiezione che Fassina ha opposto a Brunetta nella “terza camera” di Vespa. La notizia è che un liberista e un keynesiano (entrambi sfegatati) concordano sull’incomprimibilità della spesa. E’ una buona notizia per possibili future “convergenze parallele”, o è il segnale che per la spesa pubblica italiana non c’è più niente da fare? E’ senz’altro la spia di un problema della cultura economica, almeno rispetto alla spending review.

In un articolo su il Sole 24 Ore del 10 gennaio, che stavolta sottoscrivo, Roberto Perotti “tempra lo scettro ai regnatori” sulla questione della stabilizzazione della spesa pubblica. Ovviamente, lungi da quelli del Principe, si tratta dei regnatori di “noantri”: quelli in formato “mignon”. Perotti attacca il gingle pubblicitario della campagna elettorale di Brunetta-Berlusconi: taglio di un punto di PIL di tasse all’anno per cinque anni. Innanzitutto attacca giustamente il modo in cui questi tagli di spesa dovrebbero essere finanziati, che secondo il duo dei piccoli Principi dovrebbe consistere nell’alienazione del patrimonio pubblico. Lo fa ricordando che l’alienazione del patrimonio non può consentire una riduzione delle tasse. L’argomento è: se vendi le tue azioni Enel, quello che incassi corrisponde esattamente al valore dei flussi futuri che perdi, e questo riduce i flussi di cassa futuri con cui ripagherai gli interessi sul debito, che però saranno anch’essi minori perché il debito è stato tagliato.

L’argomento è molto “da professore”, e per funzionare esattamente richiede l’ipotesi che i mercati siano efficienti: se il mercato ti paga 100 il patrimonio che vendi, 100 è il valore attuale dei flussi di cassa cui rinunci, e l’esempio di azioni ENEL è calzante. L’argomento, almeno in forma più debole, è comunque vero in generale, anche se invece di ENEL hai una caserma. Qui c’è un problema in più: per vendere la caserma devi creare un mercato. E creare un mercato non è affatto facile. In altri termini, se c’è qualcuno che è disponibile a comprare a 100 quello che allo stato fornirà flussi di cassa per 90, c’è il problema di come far rivelare all’acquirente che è disposto a pagare 100. Se il mercato non è costruito in modo da assicurare trasparenza delle regole e concorrenza tra gli acquirenti, il risultato migliore che ci possiamo aspettare è che la caserma venga acquistata per 90, e il risultato previsto da Perotti è confermato anche con un mercato inefficiente: è la “svendita” del patrimonio pubblico. D’altro canto, se anche il mercato fosse organizzato in maniera perfetta, e portasse il vincitore a offrire un prezzo pari a 100, il guadagno di 10 potrebbe consentire una riduzione delle tasse, ma certo non pari a 10 l’anno, come ipotizza Brunetta: la riduzione potrebbe essere al più pari al risparmio della spesa di interessi su questa somma. La regola è semplice: stock con stock e flussi con flussi. Comunque, anche se per qualcuno questo non è chiaro, non è il caso di preoccuparsi. In un paese in cui non si riesce a far passare una legge sulla corruzione, costruire un mercato efficiente è missione impossibile, e la svendita del patrimonio pubblico una certezza.

E così eccoci al nocciolo della questione. L’unica chance ragionevole di riduzione della pressione fiscale è la riduzione della spesa. E’ lo stesso principio: flussi con flussi. E qui arriva la novità. Fassina e Perotti hanno usato quasi le stesse parole. Fassina contro Brunetta nel salotto di Vespa ha osservato che sarebbe grasso che cola vedere un risparmio di 5 miliardi contro i 16 l’anno che Brunetta prometteva come un gioco da ragazzi. Perotti ha scritto che “il problema dei tagli delle tasse è prima di tutto, e molto semplicemente, un problema di ordine pubblico”.

Ecco la notizia. Un liberista e un keynesiano sono d’accordo che la spesa pubblica è incomprimibile. Allora c’è veramente un problema, perché significa che paradigmi economici che si confrontano da un secolo non danno più risposte al nostro problema. “Quante persone in Italia hanno la competenza necessaria per fare una proposta organica e quantitativamente rilevante? Quanti partiti hanno fatto proposte concrete?”. Sono le domande di Perotti, e sono le domande giuste. Le stesse che ha sollevato l’articolo di Modiano qui su Linkiesta, e il dibattito che ne è seguito. E forse il problema non è nemmeno più solo nostro, e neppure solo europeo, come ci ha insegnato la storia del “fiscal cliff”.

Che liberisti e keynesiani siano d’accordo su quello che non si può fare alla spesa pubblica significa che abbiamo un problema di cultura economica. Che la macroeconomia non funzioni più? Che non abbia più senso parlare per aggregati? Che non abbia più senso pianificare tagli di spese e tasse per tutta l’amministrazione pubblica come se fosse anch’essa costituita da un solo “agente rappresentativo”, come quello che fingiamo detti i prezzi sui mercati finanziari? E se tagli uguali a livello aggregato sono in realtà diversi nei loro effetti, questo non porta direttamente al caos sulla misurazione del moltiplicatore cui assistiamo nel dibattito tra i macroeconomisti? E il moltiplicatore per la macroeconomia è come la pulsazione del sangue o la misurazione del respiro per la medicina. Se non la sai misurare, c’è un problema serio.

Tornando alla politica, qual è l’effetto di questa crisi culturale sulle strategie di contenimento della spesa pubblica? Forse è il fallimento della spending review fatta finora. E’ la spending review fatta “alla boia d’un Giuda”: quella che va dall’alto al basso, con grandi numeri e senza entrare nei dettagli delle funzioni. Questa griglia, questa camicia di forza messa d’alto non rompe le rigidità della spesa. Un esempio vero? Se in un’università c’è bisogno di un’unità di più in una sede e un eccesso di un’unità dello stesso tipo in un’altra, il risultato della spending review imposta dall’alto sarà una riduzione dell’offerta. La nuova spending review dovrebbe forse fare il percorso opposto: organizzarsi dal basso, e fare sì che la pressione del gruppo convinca la risorsa a spostarsi dove può garantire l’offerta. E chi si sposta dovrebbe sentirsi prezioso, e non un coglione. Quindi, non è questione di macroeconomia, keynesiani contro neo-liberisti. E’ l’eterna questione della relazione tra scelte private e scelte pubbliche: è il problema di Harsanyi.