Se a Pitti volavo da una sfilata all’altra, ecco che improvvisamente mi ritrovo a volare da un paese all’altro. Sì, improvvisamente, perché il mio rientro su Londra era previsto per Domenica. Pomeriggio. E stresso p o m e r i g g i o , perché il volo che ho scelto per tornare prima a casa, decollava niente po’ po’ di meno che alle 7. Da Pisa. Sapete cosa significa tutto ciò? Che non solo ero costretta ad abbandonare la mia patria (mano sulla fronte, anzi no, sul cuore, in segno di disperazione) 24 ore prima, ma mi aspettava anche una sveglia, come dire, notturna. Di quelle che se sei a Londra, pensi che siano le 9 del mattino da quanta gente c’è in giro, ma se sei a Firenze, pensi che il sindaco abbia appena indetto il coprifuoco. Aiutatemi a dir vuota. V U O T A. Ebbene, erano le 4 del mattino quando mi appresto a salire sul taxi che mi portava alla stazione per prendere il mezzo più all’avanguardia che c’è: il pullman. Il torpedone dal nome tutt’un programma, metteva l’aria condizionata fredda anziché calda, per renderci quell’ora di sonno in più che tutti desideravamo così tanto, impossibile. Scesa dal potente mezzo, mi affretto all’aeroporto, al caldo. Tè e brioche e mi sento meglio. Siccome erano solo le 5.30 ed il mio volo era previsto per le 7.55, che faccio? La vagabonda faccio. E tento disperate posizioni che manco il kamasutra. Insomma, di tutto per dormire su quelle orride sedie dure e fredde che non si capisce perché debbano sempre avere i braccioli, così per stenderti il tuo corpo si divide in tre: gambe-bracciolo-tronco-bracciolo-collo e testa-bracciolo. Decisamente scomoda. Allora, con bagaglio in eccesso, decido di affrontare il check in. “Buondì, devo imbarcare una valigia non prevista”. “Ahhh signorina” come per dire “ma come osa, che orrore, che problema immane , oddio come faremo” quando invece basterebbe pronunciare la frase successiva omettendo del tutto i vari commenti che la precedono “Sono €110″. Ma qui la signora-so-tutt’io-e-infatti-sono-al-desk-della-ryan-air, si sbaglia di grosso. “Veramente mi risulta che se lascio la valigia sotto l’aereo (cioé me la trascino invece di metterla su questo comodo nastro davanti ai miei occhi), pago solo €50″. Zacchete, e beccati questa, stronza. “Ah. Beh, vedremo, non so se oggi faremo in tempo con questa procedura”. “Sta scherzando vero?”. Sì, ma non lo sa. Ma non diciamoglielo, anzi, non digiamoglielo. Pago € 50 e alla fine riesco a partire con 3 valigie. Detto questo, oggi ce l’ho con i braccioli. Salgo in aereo e becco il posto all’uscita di emergenza, cioé largo e spazioso. Ma senza braccioli. Qui mi servono che cavolo, dove appoggio adesso il gomito che sorreggerà la mia testa ciondoloni? Niente da fare. Atterriamo. Sono le 9. Per le 10 sono a casa. Fantastico. Peccato che mi trovo a Stansted e al controllo passaporti ci sono solo 3 omini. E la corsia per i passaporti elettronici come il mio, è chiusa. Ci schiaccio un’oretta bella e buona, raccatto la mia valigia e decido che a quel punto è tardi, quindi tanto vale fare ancora più tardi (non so se seguite il mio ragionamento). E vada per un bel breakfast. Finito tutto, mi avvio per prendere il treno. Ma allora lo fate apposta, guardate che non è l’Inghilterra che deve assomigliare all’Italia, bensì il contrario. Treni fermi per lavori. La differenza però c’è e si vede: 20 autobus in fila per 1 col resto di due che mi aspettano. Salgo. Sono praticamente sola e mi siedo accanto all’autista donna. Non posso fare a meno di notare la sedia sulla quale è seduta per condurci tutti a casa. Molleggia come fosse un bungee jumping. No ma sono seria. Ad un certo punto stavo per tenerla ferma se no mi schizzava fuori dal finestrino. E vedevo già i titoli dei giornali. Chiusa anche questa parentesi, decido che è giunta l’ora di godere un pochino. Premo un tasto sul mio telefono e tempo due minuti il mio stesso smartphone mi indica che Robert mi sta venendo a prendere e che non c’è bisogno di pagarlo perché ha già i dati della mia carta. Robert è un taxista. Decisamente ottimista visto che è venuto a prendermi con un ducato. A 6 posti. Sono le 11, suono il campanello “Non posso scendere perché sono in pigiamaaaaa”. Ma che cavolo di benvenuto è questo? Porta su le 3 valige, saluta tutti-in-pigiama-la-casa-è-un-casino e sorridi, perché sei felice di esser tornata a Londra 24 ore prima, partendo alle 4 am, su un pullman che sparava neve, su un aereo senza braccioli, su un treno che non è mai partito. E tutto questo per amore della tua famiglia. Perché è giusto così e a Firenze avevi già preso tutto quello che c’era da prendere e non avevi più niente da dare. Anzi, sei partita anche un po’ scocciata, causa amiche tutto un mistero, sempre trattenute e che cazzo rilassatevi ogni tanto no. Ma soprattutto, chi se ne frega. Quindi, dicevo, rimetto a posto la casa, e chiedo un programma per la giornata perché mio marito, l’uomo dei numeri, è un genio quando ci si mette. Faccio male? Beh, è arrivato il piano super fico: tutti a mangiare al Mayflower! Il Mayflower è un pub secolare sul Tamigi, ma proprio sul fiume ed è splendido a dir poco, tutto in legno e anche un po’ puzzolente. la giornata prometteva bene quando a un certo punto, sento una strana fitta. Conoscendomi, penso sia la mia solita fame atavica. Mangio. Ma la fitta non passa, tutta la pancia è un po’ strana. Vabeh, starò meglio dopo. Andiamo a comprare la nuova ruota della mia bicicletta in un centro commerciale tutto dedicato agli sport. Sto sempre male, ma vedo un biliardo e come resistere? Gioco contro tutti, il che poi vuol dire contro i bambini di dieci anni. Poi vedo degli strani aggeggi tipo monopattini ma di tutte le forme, anche a due pattini, monopattini a due pattini che per farli andare devi sculettare. Non si capisce la connessione, ma è scientificamente provato che funzionino così. Quindi a questo punto io sono sul monopattino a due pattini e sculetto per mezza Decathlon, mio marito è sui roller blades mentre Viola gira come una pazza in bici urlando felice. Non sia mancasse un po’ di sana civiltà italiana a questa benedetta società inglese. Ma anche a far finta di nulla, le fitte continuano. E sempre più forti. Basta, è arrivato il momento di tornare a casa, adesso sono letteralmente e fisicamente piegata in due dai crampi. Arriviamo a casa e cammino a malapena. Quindi, mi sdraio. Ma adesso non riesco a respirare dal dolore, eppure continuo a chiedermi se io stia esagerando e se devo invece essere più stoica e farla meno lunga. Sì, forse è così. Ma non oggi, dai. Terminato questo pensiero, chiamo l’ambulanza. Ma siccome mi devono richiamare, torno al pensiero di prima e vado in ospedale senza ambulanza. E’ bello perché vado al pronto soccorso piegata in due, e mi chiedono gentilmente di compilare tutto un modulo che glielo avrei ficcato dove dico io, il modulo. L’Inghilterra funziona, Londra ha 18 milioni di abitanti e mai un bus in ritardo. E te credo, elasticità pari a 0. Quindi compilo il modulo col mio sangue praticamente e mi metto a sedere, aspettando. Mi chiamano. Prima domanda: “Soffri?”. No dico, è scema o ci fa? “Si, sono piegata in due dal dolore”. “Ok, vuoi antidolorifici?”. Ehhhhh? Scusi ma non conosco questa parola. Sà in Italia godono a farci soffrire, pensi che per partorire solo un ospedale su quindici in Toscana “concede” l’epidurale. E lo sà perché? Perché le sacre scritture dicono “partorirai con dolore”. Ma nessuno si è soffermato un solo secondino a pensare che le sacre scritture furono praticamente incise sulla pietra e da allora la scienza qualche progressuccio l’ha fatto. Insomma, prima, durante o dopo un parto, un’operazione, un’incidente, la parola sofferenza è normale e viene giustificata con un’alzata di spalle. I dottori fanno spallucce. E vabbeh. “Siiii, mi droghi fino all’osso del collo, grazie”. E vengo drogata. Siccome ero sveglia dalle 4 del mattino, mi addormento su qualsiasi sedia, bracciolo o non bracciolo, tipo eta beta. Poi su un lettino, in una camera. Mi sveglio con un braccialetto col mio nome al polso e un paio di aghi al braccio. Mmmhhhh, qua non me la raccontano giusta. Calcoli. Calcoli ai reni. No! davvero? e che vuol dire? Tanto per cominciare che mi spediscono a fare una bella lastra. Mica mi dovrò mettere quel grembiule tutto chiuso davanti e tutto aperto dietro, veroooooo? te credo poi fanno i film porno sulle infermiere e le pazienti, e daje, eh, non ci vuole mica molto, che cavolo. Quindi? Vestita. Ohhhh. Bene. “Si cali i jeans” ah ecco, e te pareva. “E’ incinta? Capisce perché glielo chiedo?”. Perché sono una donna forse? Finiti i raggi, mi invitano ad esaminarli insieme in anteprima, manco fossi al cinema. Entro in questa stanza e il dottore mi fa vedere me stessa sullo schermo, dalle costole, alle ginocchia. “Oddio che orrore, ma quella sono io? No via la prego, mi cancelli un po’ di fianchi, così non è giusto, non lo vede come m’ingrandisce? io mica sono fatta così”. “Signorina la prego, stiamo osservando i suoi calcoli”. Senti dottorino, calcola meno, e gira la diapositiva che così mi dispero. Fine dei giochi, sedia a rotelle e di nuovo al piano di sopra, in isolamento ad espellere qualche radiazione qua e là. E poi, puff! Magia! Sto bene! Mi compro un pacchetto di patatine al dispenser automatico dell’ospedale, mi chiamo un taxi e me ne torno a casa. Sarà mica che avrò preso freddo ai reni, ballando a più non posso coi colleghi giornalisti, quando improvvisamente mi si ruppe l’abito da sera?
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