Il brutto anatroccoloC’era una volta un uomo/donna che veniva dall’altra parte del mondo

Abasi, Akil, Amir, Asad, Baba, Ebo, Malik, Rashid, Adeoga, Aisha, Aziza, Binta, Chederia, Djidade, Kalifa, Marahaba. Sono questi i nomi dei protagonisti della nostra storia. Sono arrivati da lontan...

Abasi, Akil, Amir, Asad, Baba, Ebo, Malik, Rashid, Adeoga, Aisha, Aziza, Binta, Chederia, Djidade, Kalifa, Marahaba.
Sono questi i nomi dei protagonisti della nostra storia.
Sono arrivati da lontano, sognavano di cambiare la loro vita e quella dei loro cari; per anni hanno lavorato come schiavi pur di acquistare il passaporto per la felicità. Per arrivare in Italia hanno lautamente pagato gente senza scrupoli che aveva promesso loro una vita agiata, ricca di soddisfazioni e prosperità, non solo per se stessi, bensì per tutti i loro familiari, parenti e, crepi l’avarizia, amici. Ma arrivati in Italia invece della luce hanno trovato il buio, al posto del calore un freddo gelido, in luogo della ricchezza una povertà senza confini. Hanno conosciuto i morsi della fame, cosa che nel loro Paese non avevano mai provato, quella che ti fa rovistare nei bidoni dell’immondizia nella speranza di trovare un pazzo di pane da bagnare nell’acqua. Ognuno di loro aveva un’abitazione, sì modesta, ma con un tetto sulle spalle ed un letto su cui dormire; qui si sono ritrovati a dormire per strada, coperti con ripari di fortuna, i cartoni trovati per strada sono diventatati le loro coperte; i più fortunati vivono in appartamenti di 30 metri che condividono con dieci e più persone.
Nei loro Paesi avevano i familiari che li amano, che li assistevano quando erano malati, che condividevano con loro i gironi felici e quelli tristi; avevano gli amici con i quali si fermavano a chiacchierare quando si incontravano per strada, si riunivano per gustare un bevanda insieme o per passare una serata in allegria.
Nel nuovo Paese venivano trattati come cani rognosi, allontanati da tutti, come se fossero persone da tenere lontane in quanto pericolose
Non c’era bisogno che parlassero per capire che erano stranieri, bastava vedere il colore della loro pelle, tato bastava per tenerli lontani.
Ognuno aveva una propria storia e ognuno sperava di poter raccontare qualcosa di sé, quasi che questo potesse riscattarli dall’oblio che li aveva imprigionati da quando erano arrivati in Italia.
Abasi era un bell’uomo sui quaranta, nel suo Paese era un medico, sperava di poter esercitare la sua professione anche da noi; ha dovuto abbandonare il suo Paese perché aveva sfidato l’ineluttabilità delle cose, pensava di cambiare il mondo raccontando alla gente che siamo tutti uguali, quando ha capito che così non era aveva già pestato troppi piedi; é fuggito di notte come un ladro, ha dovuto abbandonare la sua famiglia: moglie, tre figli, genitori, fratelli, sorelle e nipoti; aveva pensato che il distacco era temporaneo, avrebbe guadagnato onestamente e avrebbe potuto ricongiungersi con i suoi facendoli arrivare nella terra promessa. Invece faceva il raccoglitore di pomodori, di grano, di arance, guadagnava 20 euro al giorno, si spaccava la schiena per dieci ore al giorno e doveva dire grazie a chi gli procurava il lavoro. Qualche volta aveva pensato di ribellarsi, ma oltre a prenderle di santa ragione, da parte di chi lo sfruttava guadagnando sul suo lavoro, lo minacciarono di farlo rispedire nel suo Paese. Aveva smesso di lottare e aveva imparato ad abbassare la testa e a dire “si padrone”, ma dentro di sé sperava di liberarsi da questa schiavitù e di tornare nella sua terra, dove avrebbe finalmente ritrovato persone che lo trattavano da essere umano, una sensazione che da troppo tempo aveva dimenticato. Quando era per strada nessuno lo guardava in faccia, nessuno gli rivolgeva mai un saluto; se qualcuno gli proferiva parola era solo per ferirlo, si sentiva dire ” ma perché non te ne torni nel tuo Paese? Sei qui a rubare il pane di bocca ai nostri figli”, oppure “noi quelli come te non li vogliamo, é un nostro diritto vivere tranquilli e con le bestie non si puó mai sapere”. Abasi a quelle parole, abbassava il viso, stringeva i pugni e pensava ai suoi familiari che riuscivano a sopravvivere grazie ai soldi che ogni mese riusciva ad inviare. Dopo aver sentito certe offese, pensava ai sacrifici che i suoi avevano fatto per farlo studiare, alle ore che lui aveva passato sui libri e grosse lacrime scendevano sul viso di un uomo vinto dal dolore e dall’umiliazione.
Akil, era un ragazzo di 23 anni, nel suo Paese aveva conseguito la laurea in giurisprudenza. Avrebbe voluto esercitare la professione di avvocato ma suo padre si era ammalato e non era più stato in grado di garantire il sostentamento dei propri familiari. Akil era il primo di otto figli ed avevs pensato di dover prendere sulle proprie spalle le responsabilità del capo famiglia. Aveva cercato lavoro ma aveva scoperto che avrebbe dovuto lavorare almeno 12 ore per guadagnare una miseria. In quei giorni aveva conosciuto un signore molto distinti che gli aveva prospettato un lavoro favoloso in Italia, avrebbe fatto soldi a palate, ma doveva pagarsi il viaggio, che era molto costoso.
Ne parlò con il padre che, non si sa come, riuscì a racimolare la somma necessaria. Il viaggio si svolse via mare, in una specie di barca tutta rattoppata, per giorni e giorni furono aggrediti dal sole cocente, dal vento sferzante, dal gelo notturno, dai morsi della fame e dall’arsura della sete. Per fare i propri bisogni dovevano usare un secchio comune che poi sciacquavano in mare. Non c’era rispetto per niente e nessuno. Persino i bambini erano vittime di tanta crudeltà. Quando qualcuno moriva veniva gettato in mare senza tante storie. Akil non avrebbe mai dimenticato il dolore di coloro che avevano perso i loro cari durante il viaggio. All’arrivo erano stati trattati come detenuti e rinchiusi in una specie di prigione. Alla fine era riuscito a fuggire e ovviamente non aveva saputo più nulla delle persone che avrebbero dovuto aiutarlo a trovare lavoro. I recapiti telefonici che gli erano stati forniti erano inesistenti. Si era così ritrovato da solo, in un Paese straniero, non conosceva la lingua e nessuno sembrava disposto ad aiutarlo. quando vedeva la polizia si nascondeva perché temeva di essere arrestato. Per giorni aveva vagato senza meta, con lo stomaco vuoto, con la schiena che non riusciva a distendere perché non voleva dormire per strada e con la disperazione di chi non sa a che santo votarsi. Fino a quando aveva incontrato un suo connazionale che gli aveva prospettato la possibilità di un piatto caldo, un lungo in cui dormire e un discreto stipendio. Di qualunque lavoro stesse parlando Akil pensò che mai avrebbe potuto peggiorare la sua condizione. Ah come si sbagliava, era finito per strada a vendere calzini che nessuno voleva acquistare, le persone che avvicinava erano disgustate dalla sua presenza, come se le avesse perseguitate da una vita. Il primo giorno, dopo aver girovagato per tutto il giorno rientrò a casa, una baracca lungo un fiume, venne pestato di botte e lasciato fuori al freddo per tutta la notte. Con il tempo aveva capito che andando vicino all’università trovava qualche ragazzo che pur avendo pochi soldi ne aveva qualcuno per comperare i suoi calzini, e così le serate passate a suon di botte erano diminuite, ma oltre al riparo e alla cena non riceveva altro. Akil aveva un grande sogno, tornare nel suo amato Paese, in mezzo alla sua amata gente, dove non sarebbe stato trattato come un pezzo di merda, era così che si sentiva quando camminava per strada, perché tutti lo evitavano.
All’inizio aveva pensato che fosse tutta colpa dei calzini, poi aveva capito che non era quello il problema. Semplicemente non sopportavano che lui mettesse i piedi accanto alla terra che calpestavano i cosiddetti residenti. Akil era solo un ragazzo di 23 anni che avrebbe dato la vita per uscire dall’incubo che stava vivendo, ma non poteva uccidersi perché la sua religione glielo impediva e non voleva dare un dispiacere ai suoi cari che chiamava raramente, ma se non lo avessero più sentito sarebbero morti di dolore.
La sera quando si addormentava sognava di stare con i suoi intorno ad una tavola e tutti gli sorridevano.
Le storie dei loro compagni di sventura non erano molto diverse, cambiavano i luoghi di provenienza e i lavori svolti, ma il dolore della discriminazione era lo stesso, il peso della solitudine era sovrapponibile, la sofferenza per le privazioni subite accomunava tutti e tutte.
Amir nel suo Paese era un geometra ora fa il panettiere.
Asad nel suo Paese era idraulico ora fa il badante.
Baba nel suo Paese era avvocato ora fa il giardiniere.
Ebo nel suo Paese era un muratore ora fa il venditore ambulante.
Malik nel suo Paese era soldato di carriera ora fa il pastore.
Rashid nel suo Paese era un contadino ora raccoglie oggetti utili nei cassonetti dell’immondizia.
Lavori per lo piu dignitosi, se fossero stato retribuiti con onestà e se fossero stati trattati per quello che erano, ovvero essere umani.
La sorte delle donne, se possibile, era anche peggio.
Adeoga era una bellissima ragazza, non dimostrava più di 25 anni, nel suo Paese era un’infermiera, era venuta in Italia perché il padre era stato arrestato perché non era riuscito a restituire una piccolissima somma di denaro e a casa erano rimaste nove bocche da sfamare. Venendo in Italia pensava di studiare ancora, lavorare e diventare un medico, ma qualcuno aveva deciso del suo futuro, era stata sequestrata, torturata, violentata e buttata in strada, dove veniva usata, abusata e pagata da uomini cosiddetti per bene.
Quando non si reggeva più dalla fatica, spremuta con un povero limone, veniva rinchiusa in una specie di baracca, per essere riutilizzata il giorno seguente.
Aisha era una donna di 45 anni, nel suo Paese era una sarta specializzata, lavorava in un’azienda che la sfruttava per 12 ore al giorno per pochi soldi, ma uniti a quelli che portava a casa il marito bastavano per sfamare la sua numerosa famiglia, 5 figli piccoli e i genitori anziani. Aisha nonostante tutte le fatiche quotidiane era fiduciosa in un domani migliore, fino a quando le hanno comunicato che il marito era morto in un incidente d’auto e il figlio di 12 anni, che era con lui, era gravissimo. La mamma nonostante il dolore che provava per la perdita dell’amato marito, aveva combattuto per offrire al suo bambino le cure migliori, aveva chiesto un cospicuo prestito a persone che avevano chiesto in cambio il quadruplo di quanto avevano dato. Aisha non avrebbe potuto restituire la somma nemmeno se avesse lavorato per venti anni senza spendere un soldo per vivere. Nonostante tutto pensava che ne fosse valsa la pena, il suo bambino stava bene ed avrebbe avuto un futuro sereno. Il problema che l’aveva spinta a lasciare la sua terra si era materializzato il giorno in cui il suo datore di lavoro l’aveva messa alla porta perché era arrivata con 15 minuti di ritardo. In quel momento decise che voleva dare una svolta alla sua vita, sarebbe partita in cerca di fortuna, avrebbe raggiunto sua cugina in Italia e sarebbe diventata ricca come lei. Per partire ha dovuto chiedere un altro prestito, appena arrivata l’hanno presa con una macchina e l’hanno accompagnata presso una bella casa dove vivevano due anziani non autosufficienti. Ad aspettarla c’era una sua compaesana che le ha spiegato i compiti e i diritti di una badante: lavori sei giorni su sette, si lavora almeno diciotto ore su ventiquattro, ma se necessario devi lavorare anche la notte, sei libera il giovedì pomeriggio e la domenica fino alle venti. Negli altri giorni non puoi uscire di casa. Devi pulire tutta la casa da cima a fondo, fare la spesa, cucinare, stirare, accudire gli anziani, lavarli, imboccarli e chi più ne ha più ne metta. Quando Aisha senti lo stipendio che avrebbe ricevuto, 400 euro al mese, pensò “ma la schiavitù non era stata abolita?
Si chiedeva: Perché devo lavorare tutte queste ore? Perché non sono libera di uscire se non il giovedì pomeriggio e la domenica. Quando ha chiesto del suo contratto le è stato chiesto se era scema, niente di scritto, lei era un’extracomunitaria senza carte in regola e doveva ringraziare sua cugina. che l’aveva raccomandata per questo lavoro. Sono passati sei anni, Aisha lavora ancora in nero, i suoi bambini sono diventati ragazzi, ma lei non li ha più visti, ora sono più soli che mai perché la sua mamma non c’è più; è riuscita a pagare i suoi debiti, ma non può tornare nel suo Paese perché vuole garantire un futuro ai suoi ragazzi.
Il suo soggiorno in Italia è stato catastrofico, le persone che assiste la trattano come un asino da soma, non le danno tregua né giorno né notte, anche quando è malata non provano per lei nessuna compassione, deve alzarsi perché è pagata per questo. Quando cammina per strada si sente tanto sola, nessuno le rivolge mai un saluto; quando sale su un autobus, pur pagando il biglietto, sembra sempre indesiderata; le uniche persone che le rivolgono la parola sono i suoi connazionali che ogni due mesi incontra in un ritrovo della città. A fine mese i suoi “padroni” le danno 50 euro in più, ma in cambio le chiedono di non uscire mai. Lei ha accettato perché con 50 euro i suoi figli comprano il cibo per sfamarsi un mese. Quando Aisha vede in tv qualche film che tratta il tema della schiavitù, pensa che in fondo nulla è cambiato, lei è solo una macchina usata senza scrupoli dai suoi padroni.
Aziza nel suo Paese era un’infermiera ora fa la barista.
Binta nel suo Paese era un architetto ora fa la contadina.
Chederia nel suo Paese era un medico ora fa la venditrice ambulante.
Djidade nel suo Paese era una cuoca ora fa l’allevatrice di maiali.
Kalifa nel suo Paese era un avvocato ora fa la lavapiatti in un ristorante.
Marahaba nel suo Paese era una studentessa in Medicina ora fa compagnia a vecchi sporcaccioni.
Sono esseri umani come noi, disumano è chi si crede superiore per il colore della pelle, chi sfrutta persone in difficoltà, chi approfitta della loro debolezza, chi li considera solo immigrati, chi li umilia nel corpo, nella mente e nello spirito.
VERGOGNA

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