Narrami o diva degli elettori del PD l’ira funesta. Sì, l’ira funesta spetta solo agli elettori, perché nel PD Achille piè veloce non c’è. Non ci sono invincibili, tutt’altro. Ci sono funzionari di partito che stanno ormai di casa nel cavallo di Troia e si rifiutano di uscire. E’ la tragedia di una generazione di funzionari che occupa la società civile e che si arrocca contro chi vuole tagliare i costi della politica, e bruciare il cavallo dove hanno messo i loro uffici. Se perderanno, chi si occuperà di loro? Ma se non perderanno, brucerà Troia.
Un paio di anni fa, sull’edizione di Firenze di Repubblica, ho avuto una polemica epica con due maggiorenti del PD. Per riservatezza, generalità e, non ultima, amore dell’epica (o di rimpianto del liceo), chiamerò i due come i re Achei Agamennone e Menelao, entrambi cinquantenni, come il sottoscritto. Scrisse Menelao su Repubblica, che Renzi doveva rispetto a lui e agli altri re, perché essi in gioventù avevano provato a cambiare il mondo, ai tempi della guerra di Troia. E ci avevano provato dai loro scranni, di presidenti della FGCI (federazione giovani comunisti, niente a che vedere con il calcio rilevava sornione Menelao). E quando si stufò della politica, cercò di cambiare il mondo facendosi dare un altro scranno, una presidenza di un ente culturale toscano. Rispetto, chiedeva Menelao, e avvisava Renzi che i giovani avrebbero dovuto conquistarsi il loro posto.
Io risposi che ai tempi della guerra di Troia, che svolse il suo decimo anno nel 1977, quelli che volevano salvare il mondo stavano nelle piazze, in cortei non autorizzati. E i cortei non erano autorizzati perché questi giovani rampolli della “buona politica” stavano chiusi nelle loro sezioni della FGCI e senza la FGCI non ci poteva essere una manifestazione di protesta, ma solo cieca violenza. Insomma, accusavo Menelao e i suoi pari di “stare chiusi”. E il corollario dell’accusa era che, abituati a stare chiusi, non sapevano competere. E a loro contrapponevo, nelle poche battute di un pezzo di giornale, la storia delle mie competizioni, e notavo come per me la competizione sia ormai un’abitudine e una necessità e la scarica di adrenalina sia un piacere cui sono assuefatto.
A queste parole rivolte a Menelao rispose suo fratello Agamennone. Mi parlò di “buona politica”, aggiunse che ai tempi della guerra di Troia loro stavano chiusi nel loro cavallo perché noi avevamo le pistole. E poi aggiunse una frase che uso per allietare le mie serate in compagnia. Poiché come esempio della mia assuefazione alla competizione citavo il piacere del nodo in gola che provavo mentre mi accingevo a portare la mia ricerca a Harvard e Yale, mi rispose che alla FGCI avevano criteri di selezione “degni di Yale”. Io non risposi niente allora, perché Agamennone mi aveva dato ragione. Lui alla guerra di Troia era rimasto chiuso dentro il cavallo, immaginando che tutti quelli fuori avessero pistole e machete. Non è vero. Io che ero fuori non solo non ho imparato l’uso delle armi, ma non ne ho mai vista una. Invece ricordo che loro, che stavano chiusi dentro, avevano costruito delle armi di discriminazione sociale di masse che si chiamavano: Leghe dei Disoccupati. Erano un modo di dare un bollino blu al disoccupato. Se eri iscritto a una Lega dei Disoccupati, eri un buono, uno che frequentava la sezione. Non eri una testa calda.
Fu quella delle Leghe dei Disoccupati, che ora è dimenticata e epica, la nozione più estrema di occupazione della società civile da parte della politica. Non solo la politica occupava il mondo del lavoro e della cultura, ma anche quello del non-lavoro. C’erano disoccupati iscritti e non iscritti. E l’occupazione della società civile era legata al concetto di “politco di professione”. Questo era comune a quelli della FGCI e a noi di fuori. Però, noi di fuori sapevamo che questo concetto era una versione edulcorata di quello vero, di “rivoluzionario di professione”, di derivazione leninista. I rivoluzionari di professione stavano nel cavallo di Troia in attesa di uscire, mentre i politici di professione avevano fatto del cavallo di Troia la loro casa. Come in una canzone che andava in voga allora:
“a me non sono mai piaciuti i cavalli di Troia, perché continuamente con una costanza che annoia, loro escono fuori ed io rimango dentro incerto sulle regole del combattimento…a me non sono mai piaciuti i cavalli di Troia”
La questione oggi è la dimensione del cavallo di Troia, che è così enorme da aver occupato gran parte della città. Dove arriva? Nei musei, nei teatri, nelle fondazioni, nelle banche, nelle università, nelle autorità di vigilanza? Questo è il quesito sostanziale del costo della politica, molto più del taglio dei parlamentari o degli sprechi. Se domani nessuno finanziasse più il PD, che ne sarà di Menelao e Agamennone? E quanti saranno i regi esodati loro pari? E sanno scrivere un cv? Agamennone si è presentato e ha vinto le primarie per l’elezione in parlamento, senza che io sia riuscito a trovarne un cv da nessuna parte. E io mi chiedo. Cosa sa fare Agamennone? Che studi ha fatto? Che esperienze di lavoro ha?
In quanti vivono e mangiano nel cavallo di Troia? Qual è il perimetro dell’intervento della politica nella società civile, e quale sarà il costo sociale di una ritirata (o una cacciata) della politica dalla società civile? Queste le domande che dovremo affrontare per risolvere il problema non solo della politica, ma anche dell’economia italiana che da questa politica “rampicante” è soffocata. Narrami, o diva. Te lo chiede Omero, il cantore cieco che ha dovuto dare il suo voto ad Agamennone.