Il 23 gennaio scorso il Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti ha eliminato il divieto per le donne soldato di combattere in prima linea. Nei prossimi mesi, quindi, le 202.400 donne adesso nell’esercito americano vedranno aprirsi 237.000 posizioni fino ad oggi riservate ai loro colleghi uomini. Le condizioni necessarie per accedere a queste posizioni saranno le stesse per uomini e donne, anche se il Dipartimento di Difesa non ha escluso una revisione di alcuni requisiti per renderli più adatti ai tempi e alle nuove modalità dell’impegno militare americano. La valenza della decisione di aprire la prima linea alle donne soldato è storica e si basa, secondo quanto argomentato dallo stesso Pentagono, su tre considerazioni.
Una questione di potere. Pur non escludendo che molte donne soldato desiderino combattere come i loro colleghi, la motivazione principale della riforma è un’altra. Senza avere nel proprio curriculum l’esperienza della prima linea, è impossibile avere accesso alle cariche più alte dell’esercito. Non a caso, dal diciannovesimo secolo a oggi il Congresso degli Stati Uniti ha conferito 3.459 medaglie d’onore, di cui solo una a una donna.
Il riconoscimento di una realtà di fatto. Nei soli Iraq e Afghanistan, 150 donne sono state uccise e 800 sono state ferite. Pur non servendo ufficialmente “in prima linea”, rischiavano la vita ogni giorno, in contesti di guerra non tradizionali e sempre più caratteristici dell’impegno militare americano, nei quali lo stesso concetto di battaglia, alle volte, perde di significato. Con questi argomenti, quattro donne soldato avevano iniziato a dicembre una battaglia legale contro il Pentagono, dichiarando che le loro carriere erano state ingiustamente limitate dall’impossibilità di far parte di unità di combattimento. Per questo, è un principio di semplice equità riconoscere alle donne soldato compensi equivalenti per compiti (e rischi) equivalenti a quelli dei loro colleghi, come in qualsiasi lavoro.
Un motore di cambio per la cultura tradizionalmente machista dell’esercito. Secondo dati dell’arma, nel solo 2011 sono state presentate 3.192 denunce per abuso sessuale nell’esercito. Questa sarebbe, però, solo la punta dell’iceberg. I casi effettivi (la maggior parte non riportati) sarebbero stati intorno ai 19.000. Una donna soldato su tre, quindi, sarebbe vittima di abusi, nella maggior parte dei casi molto gravi, quali violenze fisiche e stupri. L’esercito considera queste violenze come il frutto di una cultura maschilista che vede le donne come naturalmente subordinate agli uomini, fino ad oggi confermata e rafforzata dalla struttura gerarchica che rendeva impossibile alle donne il raggiungimento dei gradini più alti della carriera. In quest’ottica, la riforma di gennaio è vista dal Pentagono come strategica per ridurre l’incidenza dei casi di abuso e promuovere una cultura di pari opportunità.
La maggior parte degli americani appoggia quest’ultima riforma dell’esercito ed è d’accordo a che donne e uomini gay possano servire nell’arma senza dover occultare il loro orientamento sessuale. Voci contrarie naturalmente ci sono state e il dibattito nelle reti sociali e nei giornali va oltre la valenza della riforma stessa, vertendo sul ruolo delle donne nella società e sulle loro caratteristiche fisiche e morali.
Problemi di eros. La ragione più comune di scetticismo per entrambe le riforme riguarda la gestione dell’“eros” nel mondo militare. L’esercito si vedrebbe indebolito dalle possibili complicazioni derivate da relazioni sentimentali e sessuali tra i soldati, in particolare in gruppi piccoli come quelli adibiti al combattimento. D’altro canto, però, argomenti simili si potrebbero avere per moltissimi ambiti lavorativi, nei quali non si può escludere che l’attrazione o l’esistenza di un legame sentimentale tra colleghi influisca negativamente sulla performance professionale degli stessi. Bisognerebbe allora vietare alle donne e alle persone omosessuali di essere presenti in sala operatoria o nella cabina di pilotaggio? Oppure bisognerebbe avere un’assoluta separazione dei sessi nel mondo professionale, ad eccezione che per gli omosessuali? Chiaramente, seguendo questa logica, si entra non solo nel paradosso ma in una visione della società pericolosamente simile a quella del fondamentalismo islamico.
Il corpo delle donne. Uno degli argomenti contrari più comuni alla riforma di gennaio è quello sulla naturale inadeguatezza delle donne a servire in ruoli che richiedono grande forza fisica, come alle volte in battaglia. In questo caso, l’argomento si basa principalmente su un fraintendimento della riforma, che non apre le porte della prima linea a tutte le donne soldato, ma solo a quelle che hanno i requisiti necessari per la posizione. Gli stessi requisiti, è bene ricordarlo, che sono richiesti agli uomini, senza sconti e senza quote, inclusa la forza fisica, che nel caso di molte donne è superiore a quella dei colleghi.
La guerra è anti-femminista? Secondo alcuni, la guerra (come valvola di sfogo di una cultura basata sulla prevaricazione) ha valore solo in un mondo dominato dagli uomini, mentre le donne sarebbero nate per essere mamme e pertanto creatrici e non distruttrici della vita. Quest’argomento, seppur interessante, è estremamente pericoloso perché confina le donne a ruoli tradizionali della società patriarcale, negando le loro individualità e limitando le loro scelte. Ugualmente problematico, anche se in direzione opposta, è l’argomento che la presenza delle donne nelle unità di combattimento migliori la performance delle stesse, per via delle caratteristiche inerentemente femminili di comprensione, empatia e solidarietà che le donne soldato porterebbero con loro. Verrebbe da chiedersi per lo meno com’è possibile coniugare quest’idea con la realtà di un esercito in cui una donna su tre è vittima di violenza sessuale. Dove finisco empatia e solidarietà in situazioni come quelle?
In Italia, una conversazione di questo tipo, in larga misura, manca ancora. Nel nostro Paese, le donne sono entrate a far parte dell’esercito nel 1999 e da allora è in atto un processo d’integrazione complesso e ancora tutto in fieri, a quanto scrivono le stesse donne soldato sul blog dell’esercito. Come succede negli Stati Uniti, possiamo immaginare che gli abusi e le violenze sulle donne soldato non siano infrequenti, come indicherebbero le indagini sulla caserma di Ascoli Piceno dove lavorava Salvatore Parolisi, ora in carcere con l’accusa di aver ucciso la moglie. Diversamente che negli Stati Uniti, però, non sembra evidente una volontà chiara dell’esercito di superare discriminazioni e stereotipi di genere. Anche nei materiali più politically correct dell’esercito, infatti, il linguaggio usato sembra proprio più agli anni Cinquanta che al ventunesimo secolo. In una relazione del capo di stato maggiore della difesa, per esempio, si legge che è importante capire che “tra i sessi possono sussistere differenze innate per quanto riguarda in particolare l’approccio nei confronti del medesimo problema e la gestione delle emozioni”. In altre parole, spiega poi l’autore, le donne sono emotive e non riescono a contenere le proprie emozioni (poverine, bisogna capirle), mentre gli uomini sono introversi e controllati. Con una retorica di questo tipo, è difficile che la pratica sia ottimale.
Per concludere, negli Stati Uniti come in Italia, grazie alla loro tenacia e la loro capacità, le donne sono riuscite a conquistare posizioni importanti in ruoli considerati tradizionalmente maschili, come quello militare. Affinché le donne soldato possano contribuire pienamente all’arma è necessario che abbiano la possibilità di crescere professionalmente. Riforme come quella di gennaio sono importanti non solo per garantire la parità nell’esercito, ma anche perché spingono la società nel suo complesso a interrogarsi sulla validità di stereotipi, categorie e ruoli di genere. Quanto manca perché anche in Italia inizino a farsi seriamente domande di questo tipo?