Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”.
sanza ‘nfamia e sanza lodo: senza meritare presso gli uomini né infamia né lode. Con questa frase Dante definisce coloro che non hanno avuto il coraggio di compiere né il bene né il male; il loro contrassegno è la viltà (cfr. vv. 60 e 62). Essi sono quindi i pusillanimi (così già intende Pietro, e in genere gli antichi), che non hanno esercitato la facoltà di arbitrio – e quindi di ragione – per cui l’uomo è tale e vive (che mai non fur vivi; cfr. Conv. II, vii 3-4). Per loro Dante mostra il più profondo disprezzo, proprio perché manca in loro ciò che, sia pure nel male, distingue l’uomo, e che egli sempre onora fin nel più profondo dell’inferno. (Anna Maria Chiavacci Leonardi)
I figli che odiano il padre consumano la loro esistenza evitando di assumersi responsabilità. Non vogliono trovarsi nella posizione dell’accusato per eventuali errori che potrebbero aver commesso. Non rischiando di commettere il male evitano anche di fare il bene. Sarebbe un modo per mettersi in mostra, per assumere una posizione, o per sentirsi tranquilli, in pace con la loro coscienza. Neppure questo possono fare. La loro gioia sta nel tormento per le occasioni perdute. E il padre, il padre che non possono incarnare neppure in una forma nuova sta sempre da un’altra parte, accanto a loro, di fronte a loro, mai dentro di loro.
Forse il modo migliore per interpretare (e stigmatizzare) l’irresolutezza mortale che rischia di portare molti tra i democratici all’autodistruzione consiste in una riflessione sul rapporto con il padre. Nel 68, di fronte al parricidio culturale qualcuno frenava, dicendo: va bene liberarsi del Padre, ma a condizione di servirsene. Insomma, non gettate il babbo con l’acqua sporca. Ed ecco alcune postille di Massimo Recalcati in proposito: “È l’assunzione dell’eredità. L’idea che abbiamo giocoforza un debito con l’Altro e che dobbiamo riconoscerlo. Che qualcosa della tradizione dev’essere salvato”. E ancora: “Per la psicoanalisi l’odio non libera. Ma vincola. Lascia incatenati alla persona o alla cosa odiata, per l’eternità”.
Un altro psicanalista, Umberto Silva, scrive oggi sul “Foglio”: “Quando si vive nella fissazione di dover a tutti i costi diventare altro dal padre, con il cui spettro mai si è osato davvero e con forza colloquiare, si vive nella sua ombra e senza accorgersene lo si imita nei suoi tic. E gli si trova un assurdo sostituto, il Cavaliere in questo caso. Il Pd è vissuto nell’impotenza, che accanitamente ha contrapposto all’onnipotenza, fonte presunta di ogni scelleratezza e attribuita all’altro”.
Ecco di cosa il Pd si deve liberare se vuole accedere all’età adulta come forza politica. Qualcuno c’è riuscito, forse per via dell’età. Napolitano è uno che ha saputo interiorizzare la figura del padre fino a poterla credibilmente incarnare. Quello che il nonno ha saputo fare è alla portata dei figli e dei nipoti. Tutto sta a vedere quanto tempo metteranno a compiere il passo.
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