Behind reputationBenetton e Abercrombie: 2 casi di reputazione sul filo

Behind Reputation Non stiamo parlando di un filo di lana, di cotone o il più tecnologico Resistex® Carbon, e tantomeno del celeberrimo  filo di Arianna anche se, in effetti, trattiamo due storie i...

Behind Reputation

Non stiamo parlando di un filo di lana, di cotone o il più tecnologico Resistex® Carbon, e tantomeno del celeberrimo filo di Arianna anche se, in effetti, trattiamo due storie impervie e parallele che hanno visto i marchi di questi due importanti retailer dell’abbigliamento impegnati a difendere la propria reputazione su diversi fronti.
Ambiti differenti, scenari geografici e valoriali totalmente diversi, unico elemento in comune il settore di business e, negli ultimi tempi, la gestione di un’importante attività di crisis management.
Tra i due casi ci sono parecchi distinguo da fare e, a mio modo di vedere, una lezione comune da imparare, ma vediamo prima i fatti.

Per quanto riguarda Abercrombie la cronaca racconta della pubblicazione di un libro “The New Rules of Retail” che ha reso volutamente pubblica l’ostilità dell’AD Mike Jeffries nei confronti delle persone grasse, in termini più fair sovrappeso. Un amministratore delegato perciò che delimita il target dell’utilizzatore ideale del proprio brand, “discriminando” di fatto le persone meritevoli di indossare Abercrombie e quindi esserne un fan in base alla prestanza fisica. Siamo negli Stati Uniti d’America, culla della democrazia orizzontale, patria del consumerismo fin esagerato, Paese in cui i social media sono oramai un canale di comunicazione always on, con una penetrazione pressoché capillare.
Davanti ad uno scenario come questo, poteva la dichiarazione di Mike Jeffries passare inosservata? Domanda retorica ovviamente, Abercrombie si è trovato davanti ad uno tzunami di protesta e denuncia user generated capace di togliere voce e credibilità a qualsiasi tentativo di difesa. Tra le tante iniziative di insurrezione capaci di polarizzare l’indignazione contro la brand identity di Abercrombie vale la pena raccontare quelle che hanno colpito duro al fianco reputazionale della multinazionale americana dal punto di vista del tone of voice.
Abercrombie è stata costretta a confrontarsi con una petizione pubblicata su Change.org(piattaforma con oltre 20 milioni di membri in tutto il mondo che permette a chiunque di lanciare e promuovere una campagna per realizzare un cambiamento) da parte del diciottenne Benjamin O’Keefe. Una “semplice” raccolta di firme virtuale, per costringere Mike Jeffries a scusarsi per le dichiarazioni offensive e per chiedere all’azienda di produrre capi di abbigliamento anche della taglia large ed extra large, che ha raccolto oltre 69.000 adesioni, incendiando il dibattito pubblico e aggravando ulteriormente la situazione di crisis per il marchio. Perché la magnitudo del crisis è enormemente cresciuta? Perché il diciottenne Benjamin O’Keefe non era un normale detrattore della marca, ma un acceleratore mediatico del “caso umano” che ci può essere dietro ad ogni situazione critica considerando che, in passato, aveva sofferto di problemi di anoressia, e che, associazioni di primo piano negli Stati Uniti nella lotta ai disordini alimentari, come la “National Eating Disorders Association”, hanno dato il proprio endorsement alla campagna.

Parallelamente a questa iniziativa, Greg Karber, scrittore di Los Angeles disturbato dalle opinioni di Jeffries e ancor di più dal fatto che i capi fallati venissero bruciati piuttosto che dati in beneficenza, ha dato vita al progetto #FitchTheHomeless. Munito di una telecamera è andato in cerca di abiti Abercrombie nei negozi di usato e, dopo averli recuperati, li ha donati ai barboni della città. Nel video postato su Youtube, lo scrittore ha invitato gli utenti a fare lo stesso, pregandoli di condividere lo sforzo sui social. L’iniziativa ha superato ogni aspettativa: oltre 7 milioni di visualizzazioni su Youtube, con l’hastagh #FitchTheHomeless che settimana scorsa, tra il 14 e il 16 maggio, ha ricevuto oltre 30.000 mentions. Un’operazione indubbiamente vincente per il promotore e, all’opposto, estremamente dannosa per la reputazione del brand, proprio per la capacità di scardinare l’associazione, tanto cara al CEO Mike Jeffries, tra Abercrombie e l’idea di coolness.
Da poche ore la crisi sembra sulla via di risoluzione, grazie ad un pur poco repentino cambio di rotta di Abercrombie & Fitch che, il 24 maggio, emetterà i dati relativi all’andamento del primo quadrimestre e che ha incontrato i suoi principali detrattori (Cali Linstrom, Benjamin O’Keefe, Darryl Roberts e Lynn Grefe). L’azienda ha emesso una dichiarazione ufficiale di scuse che recitava testualmente “Ci auguriamo di poter continuare questo dialogo e l’adozione di misure concrete per dimostrare il nostro impegno anti-bullismo in aggiunta al nostro supporto continuo verso politiche che favoriscano la diversità e dell’inclusione. Vogliamo ribadire che siamo sinceramente dispiaciuti e ci scusiamo per qualsiasi offesa è derivata dai commenti che abbiamo fatto in passato, che sono contrari a questi valori”. Tutto qui? Un incontro e una dichiarazione di intenti? Dopo uno tzunami di questa portata? Mi auguro di no, ma siamo ancora in piena gestione della crisi, e resto in attesa dei prossimi next step.

Per quanto riguarda Benetton, la cronaca racconta del ritrovamento di una camicia di colore scuro con l’etichetta dell’azienda di Treviso tra i resti del tragico crollo di una palazzina in Bangladesh, una foto notizia dell’ Associated Press compromettente, capace da sola di attraversare e trovare spazio nella vasta scala dei media internazionali on line, on air, on kiosk. Confusione, incredulità, pressione mediatica, tempi aziendali lunghi per la verifica di una filiera inevitabilmente lunga, prime dichiarazioni avventate per tirarsi fuori dalla mischia, pausa di riflessione per definire una strategia e una via di uscita importante.
C’è molto in questo caso B, ci sono quasi tutti gli elementi in grado di attirare gruppi di pressione, le più disparate contro la marca la sua credibilità. Dal punto di vista del crisis management non una nuvola passeggera, ma un caso che insegna e da cui mi attendo ancora di poter imparare.
L’episodio, dopo qualche passo falso iniziale, infatti ha consentito a Benetton di adottare politiche del lavoro più responsabili, attraverso la sottoscrizione di un protocollo a tutela della sicurezza dei lavoratori bengalesi, e di mettere in atto una strategia di comunicazione che ha premiato la reputazione aziendale. Come racconta Repubblica del 14 maggio, infatti, Benetton si è fatta promotrice di un accordo internazionale, in compagnia di altri big dell’abbigliamento come Zara, H&M, Mark&Spencer, (che ha anche ricevuto il plauso di Deborah Lucchetti, Coordinatrice della Campagna Abiti Puliti), che obbligherà un ispettore capo indipendente a vigilare sul rispetto delle norme di sicurezza negli stabilimenti tessili e imporrà alle fabbriche di modernizzare i propri impianti. Interessanti le reazioni postate, ad esempio, su Twitter, ma ancor più interessante il fatto che una crisi possa far nascere una miglioria comportamentale, un nuovo KPI aziendale, un obiettivo che probabilmente nessuno si sarebbe aspettato di raggiungere a fronte della gestione di una crisi a livello di comunicazione.
Ma che, invece, è la risposta più significativa che può dare una marca che vuole dimostrare di essere capace di ascoltare prima di comunicare: è semplicemente una questione di credibilità. Qui sta la differenza, abissale per ora, nella risposta delle due marche a due situazioni difficili: Benetton ha sottoscritto un impegno che prevederà investimenti a fronte di una crisi innescata da un infausto incidente, Abercrombie&Fitch sembrerebbe essersela cavata con una dichiarazione di intenti davanti ad una crisi autoprodotta da una strategia di marketing aggressiva.

Senza stilare giudizi definitivi l’impressione è che, in Benetton, abbiano chiara la via di uscita come la ebbe Nike ai tempi della crisi sui palloni cuciti da minori in alcune “fabbriche” di fornitori del sud est asiatico. Su Abercrombie&Fitch nutro ancora dei dubbi sul fatto che abbiano capito che in questi casi è necessario, e specularmente utile, evidenziare di avere sviluppato e introiettato una “nuova sensibilità”. Solo supposizioni le mie, è evidente, ma forse, basta dare un occhio alla comunicazione non verbale che troneggia sui relativi siti corporate delle due aziende (Abercrombie.com / Benettongroup.com) per decretare, un parziale, Italia batte USA 2-0, anche perché proprio oggi Benetton ha aggiunto alla prima meritevole sottoscrizione del Fire and Building Safety Accord una nuova iniziativa questa volta a diretto sostegno dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime del crollo del Rana Plaza Building a Dacca, in Bangladesh. Insieme a BRAC, recentemente riconosciuta come la prima ONG al mondo, Benetton svilupperà un programma a lungo termine principalmente focalizzato sulle famiglie che hanno perso la loro unica fonte di reddito in seguito alla disgrazia, e che prevede inoltre diverse forme di supporto, tra le quali interventi di assistenza psicologica e di riabilitazione per le vittime rimaste ferite e corsi di formazione per i lavoratori. Non c’è due senza tre, chapeau.

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