Out among the EnglishGo down, Moses (William Faulkner)

Ho scoperto Faulkner a sedici anni. Era il periodo in cui vagavo per le librerie alla ricerca di copertine che attirassero la mia attenzione, in felice coincidenza con il periodo di massima recett...

Ho scoperto Faulkner a sedici anni. Era il periodo in cui vagavo per le librerie alla ricerca di copertine che attirassero la mia attenzione, in felice coincidenza con il periodo di massima recettività della mia spugna cerebrale che faceva schizzare la mia curiosità alle stelle e mi dava tanto, tanto, tanto tempo libero per stimolarla. Comprai L’urlo e il furore e lo lessi d’un fiato, senza capirci quasi nulla per i primi due o tre capitoli, ma quando arrivai in fondo e trassi le fila delle infinite trame familiari, ricollegai i rapporti, compresi la grandezza della saga, non riuscii a pensare ad altro per giorni. Il clima caldo e umidiccio del profondo sud mi si era appiccicato addosso come quella patina unta e densa che ricopre la superficie dell’acqua ferma nelle bayou della Louisiana. Tra tafani, schiavi e portici cadenti.

Volevo leggere qualsiasi cosa avesse scritto Southern Bill, e lasciai scorrere la vena di accumulazione compulsiva. Passarono Smoke, Luce d’agosto e Santuario, Oggi si vola lo rubai nella biblioteca della mia scuola superiore mentre ero addetto all’inventario, ancora oggi ho la sensazione di averlo salvato da un destino di anonimato. Dopo qualche tempo – non molto ma caratterizzato da una certa intensità – la mia fervida attenzione deviò su qualche altra scoperta e lasciò riposare Faulkner nell’angolo di quelli che – senza avere la più pallida idea di cosa fosse il rapporto col padre, le implicazioni dello schiavismo, Hollywood – erano diventati i miei autori di culto.

Nel corso degli anni ho cercato di restare al passo e colmare le lacune più grandi, fornendomi di edizioni tascabili per quanto fosse possibile, ma solo un paio di mesi fa mi sono accorto di una mancanza imperdonabile.

Su Blow Up di Marzo, nell’ambito di una bellissima monografia, Fabio Donalisio traccia un approfondimento riguardo a un libro dalla scioccante copertina arancione – breve inciso: con la maturità, all’attrazione per le copertine si è sostituita l’attrazione per i titoli, per fortuna, altrimenti mai e poi mai avrei pescato questa specie di catarifrangente editoriale. È la ristampa di Go down, Moses (al secolo Scendi, Mosè), comparso per la prima volta per Mondadori nel 1947, poi di nuovo nel 1981, finalmente nel 2002 con la concessione del ritorno al titolo originale per Einaudi – in quei Supercoralli Classici presto scomparsi – fino all’edizione attuale, nella collana delle Letture. Ora, la questione del titolo può sembrare una cosa da sofisti, da fissati, da pignoli, ma qui è fondamentale. Go down, Moses è uno spiritual, e incarna tutta la disperazione di diverse generazioni in attesa del loro Mosè, schiavi tra gli schiavi, vicini a quel popolo intrappolato in Egitto, ma senza la promessa della terra. Anche nel suono della frase sembra echeggiare la musicalità delle piantagioni, il ritmo dei forzati, la cadenza in toni bassi su cui si apre una una voce di soprano. Scendi, Mosè non trasmette praticamente niente.

La storia poi è qualcosa di magnifico. All’epoca della pubblicazione Faulkner si risentì non poco del carattere da raccolta di racconti ripescati che l’editore voleva imporre (Go Down, Moses and Other Stories è il titolo del 1942, per Random House). Qualcosa era già uscito, e la discontinuità c’è, ma il fatto che si tratti di un romanzo univoco – per lo meno a leggerlo oggi, e conoscendo bene la passione dell’autore per in non-continuum – è fuor di dubbio.

L’impatto che ha avuto su di me è stato più o meno quello de L’urlo e il furore, vorrei solo poter dire con più maturità, ma finirei per sminuire il libro. Ho passato le prime cinquanta pagine a chiedermi: «che diavolo sta succedendo?» e le restanti ad alternare sorrisi compiaciuti a risate di soddisfazione, mentre tutto andava a posto. I salti di trama, le acrobazie temporali, l’uso lucido e scombinato di una punteggiatura schizofrenica, raccontano la storia di Zio Ike che rinuncia all’eredità per vivere come uno schiavo libero, e dentro c’è tutto. Southern Bill segue un capostipite senza figli per raccontare la storia dei McCaslin, una famiglia “sporca”, mulatta, mista. L’estrema complessità delle sottotrame è qualcosa di, al tempo stesso, fondamentale e grandioso, che scivola attraverso gli incesti, i tradimenti, i matrimoni di fortuna e quelli di piacere, saltando – con le sette parti del libro, o racconti – da un epoca all’altra, senza soluzione di continuità se non quella inferta dallo sguardo di Ike, che vive malgrado tutto, e crede nelle sue scelte. Il ragazzino, il vecchio, il saggio, il beone Zio Ike.

Dentro Moses c’è un Faulkner completo, estremo e disilluso, al massimo del suo splendore e della sua densità di parole. C’è il sud come doveva essere, diretto e senza moralismi – ottima (e non scontata) la scelta di mantenere il termine negro, a comprendere nigger, negro e darky, tutti con lo stesso significato e la stessa inequivocabile funzione – e c’è un trama massiccia che spunta qui e là come un arcipelago di montagne sommerse, ma che quando ti accorgi del suo volume ti investe come un treno in corsa.

L’albero genealogico dei McCaslin, tanto per dire il genio.

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