Dopo questo turno di elezioni amministrative ci sono due dati chiari, inequivocabili, che non possono essere travisati: la vittoria – una volta ancora – del partito dell’astensione e il flop, per certi versi inaspettato, del MoVimento 5 stelle.
Certamente non si possono paragonare le elezioni amministrative a quelle politiche. A partire dal sistema elettorale (doppio turno con preferenze) arrivando all’oggetto del contendere, è tutto diverso. Uno degli errori del M5S sta proprio in questo. Alle elezioni comunali non basta dire con sufficienza “devono andare a casa perché…”, non basta urlare dai palchi e inveire contro la casta. Il Comune è l’istituzione più vicina ai cittadini, di conseguenza questi ultimi si aspettano risposte concrete a problemi concreti. Il movimento grillino è stato punito anche per una serie di errori politici. Primo su tutti la rinuncia a governare: hanno avuto l’occasione di entrare in un governo, potevano misurarsi con la prova più dura. La scelta di non entrare nel governo perché gli altri sono i cattivi e loro i buoni non può far bene, specie ad un movimento che ha conseguito il 25% su scala nazionale e che quindi qualche responsabilità doveva assumersela. Alla lunga costa e a Roma è costato il 16% in meno dei consensi. Altro errore è la saccenza con cui i deputati e non si pongono nei confronti dei loro colleghi, ma anche nei confronti di giornalisti ed altri addetti ai lavori; ieri sera l’ultimo caso: Di Battista a Piazzapulita. Ricordate la Lombardi durante l’incontro con Bersani trasmesso in streaming (“qui non siamo a Ballarò”)?
Per ultimo, ma non per importanza, la mancata analisi dell’elettorato grillino: il M5S ha catalizzato il voto di protesta. Una buona fetta di chi ha votato Grillo alle politiche lo ha fatto per protestare contro un sistema di partiti inefficiente. Spesso l’elettore non conosceva neanche il programma del MoVimento, ma tramite il suo voto ha voluto alzare la “voce” contro quegli organismi politici che non riescono a proporre nulla di concreto. Di conseguenza, essendo quello un voto di protesta, era facilmente immaginabile che i grillini non si sarebbero riconfermati. D’altronde quando si parla alla pancia degli elettori si può ottenere un risultato immediato, ma nel medio e lungo periodo è difficile avere lo stesso consenso.
Ma se si può essere rallegrati dal flop di Grillo, non lo si può essere per i dati di affluenza alle urne. In tutta i Italia ha votato poco più del 62%, a Roma non si è arrivati nemmeno a quota 53%. Un risultato più che deludente, probabilmente dettato anche dai candidati scelti. Si prenda Roma come esempio: Alemanno è stato ribattezzato “AleDanno” – questo la dice lunga sulla considerazione che hanno i romani del sindaco uscente; Marino non è romano e per una città fortemente identitaria come Roma non è un elemento da sottovalutare; Marchini ha dato l’impressione di essere poco incisivo, anche se con i suoi numeri sarà l’ago della bilancia.
Allo stesso tempo bisogna dire che vi è una vastissima componente del corpo elettorale che non si riconosce in nessuno. Se il 38% degli aventi diritto al voto ha scelto di rimanere a casa vuol dire che il sistema di rappresentanza politica è in forte crisi e niente – ora come ora – riesce a fermarne il declino. Ma, è ovvio, la colpa non è solo della politica: vi è un concorso con i cittadini. Se la domanda è scadente, l’offerta è di conseguenza scadente. Se i cittadini hanno a cuore i costi della politica (causa giusta, ma non prioritaria), la politica stessa continuerà a fare orecchie da mercante. Si guardi la luna e non il dito. Si chieda maggiore libertà economica, un taglio netto alla spesa pubblica, maggiore concorrenza, maggiore competitività.
Insomma la politica deve assumersi le proprie responsabilità, deve regalare una visione. Cominci a parlare alla testa, non alla pancia degli elettori. Così – forse – l’astensionismo calerà.
Twitter: @MarcoMitrugno