Se a uno che scrive di libri fosse concesso di avere dei libri preferiti, tra i primi della mia lista ci sarebbe sicuramente Dispacci, di Micheal Herr (Alet, 2005). Una serie di lucidi bollettini di guerra da quello che, per più di dieci anni, è stato l’inferno per centinaia di migliaia di persone, e il paradiso per decine di migliaia di giornalisti: il Vietnam. La verità è che sono un grande fan delle cronache dal fronte e se non fossi stato estremamente pigro e decisamente codardo, avrei preso questa strada anni fa. Poi invece mi sono trovato a scrivere di letteratura, che è un po’ come scegliere la scorciatoia verso tutti gli altri temi, perché qualsiasi cosa mi venga in mente, c’è sicuramente qualcuno che ne ha scritto e con un po’ di fortuna non neanche così male.
Il giornalismo d’azione è fatto di posti scomodi, situazioni al limite e vestiti inzuppati. Tutte cose che io conosco da lontano e che, benché generalmente producano fotografie decisamente molto cool, dopo un po’ mi fanno sentire a disagio. Ecco: vorrei essere Neil Flynn, ma alla fine ho la stoffa di Truman Capote – Kansas a parte. C’è un periodo dell’anno, però, in cui anche a quelli come me è concesso di assaggiare un po’ di del brivido del corrispondente, degli spostamenti frenetici, degli appunti presi di fretta e del dover inseguire le storie – e dei vestiti inzuppati, pare, visto come mette il tempo. È quel periodo che va da maggio a settembre, la stagione dei festival. È il periodo in cui mi viene voglia di muovermi, di essere dove c’è fermento, di far parte delle schiere d’opinione che per il resto dell’anno rimangono nell’ombra, o emergono, svogliate e pallide, alle rare presentazioni e agli happening natalizi.
Naturalmente l’evento che più si addice a questa mia rinnovata volontà di condivisione è il Salone Internazionale del Libro di Torino. Il Salone, per brevità e senso di vicinanza.
Inizia oggi (16 Maggio 2013) e va avanti fino a lunedì, ma se ne parla già da qualche mese. Anzi, se ne parla praticamente sempre, è il sottinteso che incombe ogniqualvolta si faccia un discorso di ambito editoriale. Perché tutto quello che deve accadere, gli accordi, le rivalità, i sorrisi finti e quelli sinceri, gli amori e gli odi, sembra si sviluppino attorno agli stand del Lingotto in questi cinque giorni maledetti. Ecco, la cosa eccitante, per cui vale la pena di essere in prima linea, è che tutto quello che succede durante il resto dell’anno arriva in sordina, riportato o raccontato, quindi gonfiato e distorto dai successi e dai flop, mentre al salone ogni cosa è in diretta, si possono studiare i movimenti dei protagonisti – siano essi redattori, ufficio stampa, autori o emeriti patron –, ascoltare quello che succede e raccogliere conferme e smentite da tenere come dati di fatto per i mesi bui. Si può essere veramente sul pezzo, se ancora è concesso di usare questa espressione senza suonare come uno yuppie stagionato.
La situazione del mercato editoriale in Italia è decisamente un tema caldo, sfoderato ad esempio quando si parla di crisi, perché pare che quella dell’editoria sia contemporaneamente la più nera e la meno ostentata. Con le librerie che chiudono, il lettori che non ci sono mai stati, gli editori che non sanno più dove andare a parare per ravvivare il fatturato. Le critiche da destra e da sinistra, perché non si possono pubblicare solo porcate ma d’altro canto senza le porcate qui faremmo tutti la fame, e il fatto che la maggior parte delle persone che ci lavorano la fame la fa davvero, ma se lo dà a vedere finisce per non lavorarci più. I piccoli editori che danno la colpa ai grandi gruppi, i grandi gruppi che dicono che ci sono troppi piccoli editori e i medi che ancora non ho ben capito chi siano. Insomma, materiale da subbuglio, da studio sociale.
Io non ho una vera e propria opinione in proposito, ho delle buone ragioni per sostenere l’uno o l’altro argomento, alcune simpatie e molti dubbi. Per questo ho deciso, quest’anno, di vivere il salone quanto più mi è possibile, per cercare di tirare qualche conclusione e determinare quanto contino veramente le feste, al netto delle vendite agli stand. La convinzione con cui parto è quella che sia una guerra infame (nel senso di scellerata, poco popolare), combattuta dalla fanteria ignara, entusiasta e devota, ma pilotata dalle alte sfere, con tante buone intenzioni ma apparentemente a corto di buone idee, mentre i civili – i lettori – che dovrebbero essere protetti e allevati, tutelati e difesi, vengono trattati come numeri e rimedi anticrisi. Non è necessariamente una connotazione negativa, è quello che passa attraverso i social, quello che appare dalle partecipazioni agli eventi – in media il 75% del pubblico letterario è composto da addetti ai lavori, ed è un dato non un’illazione – e che traspare dalle tante, troppe, pagine culturali piene di articoli ma vuote di contenuti. Cercherò di pubblicare un post al giorno, aggiornandolo di volta in volta con segnalazioni, opinioni personali, opinioni pubbliche, fatti di cronaca, Tweet (hashtag: #SalTo13, #GuerraInfame) e riflessioni più o meno concrete. Cercherò di non perdere il filo, di essere un buon corrispondente.