Sono cresciuto in Lombardia occidentale, vicino alla Svizzera. Un posto verdissimo, popolato da persone che si accompagnano bene al bluegrass, trattori e fiaschetti di vetro e vimini appesi sotto le verande, che col vento tintinnano, mettendo allegria di giorno ma di notte un’inquietudine infinita. Per questo capisco la provincia becera, le risse da bar e gli sguardi vuoti che accompagnano i discorsi articolati da una sola lettera. Per questo mi piace Joe Lansdale.
Che io sappia — con il beneplacito di Wikipedia — Lansdale ha ambientato tutti i suoi romanzi nel Texas orientale, dove non ci sono i saguari, d’inverno fa molto freddo e la gente ci pensa due volte prima votare George W. Bush, salvo poi votarlo comunque. Il Texas di alcuni romanzi di Cormac McCarty, per capirci — ma è ovvio che non siamo nell stesso campo di gioco. Un ambiente sostanzialmente positivo ma puntellato qui e là da eccessi di razzismo, perbenismo, delinquenza organizzata, contrabbando di armi, pedofilia e di tanto in tanto mostri a due teste, alti tre metri che vomitano popcorn. Quanto basta a coprire le sue due saghe più famose: quella del drive in e il ciclo di Hap e Leonard.
Il Drive in è un esperimento estremo composto da quattro libri scritti tra il 1988 e il 2005 — in Italia condensati in tre, La notte del drive in, Il giorno dei dinosauri (entrambi in La notte del drive in, Einaudi, 1998) e La notte del drive in 3 (Einaudi, 2005), e raccolti nel 2012 nel volume Drive in (Einaudi) — che inizialmente dà l’idea del romanzo per giovani adulti, poi si trasforma in qualcosa di fantascientifico e verso la fine del secondo volume abbraccia felicemente l’horror splatter. A dire la verità, non penso che ora come ora lo rileggerei, ma quando l’ho fatto mi ha dato soddisfazione. Un po’ come guardare un film di cui è appena uscito il remake, lo si fa con la coscienza pulita anche se probabilmente la nuova versione è molto più spettacolare. Il Drive in è un figlio del suo tempo, quegli anni ottanta in cui si potevano osare scene raccapriccianti e descrizioni dettagliate di atti di cannibalismo e aberrazioni fisiche degne di Sam Raimi, che oggi fanno un po’ ridere ma meritano la propria fama — c’è da dire che l’ultimo capitolo della saga, quello del 2005, non è affatto all’altezza dei primi due, e dà l’idea che Lansdale abbia voluto semplicemente riprendere in mano qualcosa che aveva lasciato in sospeso, non riuscendo però a mantenerne il tenore.
Il ciclo di Hap e Leonard comincia nel 1990, con Una stagione selvaggia ed è da subito solo questione di chi mena più forte. I due protagonisti sono quanto di più stereotipato — e giusto, più che mai giusto — esista al mondo. Hap è bianco, eterosessuale, ex obbiettore di coscienza e pacifista convinto, senza un lavoro fisso e scapolo, Leonard è nero, omosessuale, irascibile, ex combattente (naturalmente in Viernam), fumatore di pipa, pragmatico e ironico. Sono amici per la pelle, uno esperto di arti marziali, l’altro di armi da fuoco, entrambi stanchi di cercare di aggiustare il mondo ma che finiscono sempre per combattere qualche sopruso. Nel corso dei nove libri che compongono la serie, Lansdale dà il suo meglio e afferma la sua autorialità come uno dei più abili scrittori d’azione dell’America contemporanea e grande genio del pop. Certo, si tratta di letteratura di genere e, certo, dopo un po’ sembra che tutto si ripeta — io ho accusato il colpo con Sotto un cielo cremisi e ho dovuto staccare a Devil red — ma una scrittura così asciutta e tagliente, i dialoghi scattanti e ironici, la perfetta caratterizazione dei personaggi e l’ambientazione viscerale (Texas!), valgono senz’altro la lettura, tanto più che non è facile — quasi impossibile — trovare dei libri d’azione così curati, sia dal punto di vista della stesura, che da quello della traduzione (menzione d’onore assoluto a Costanza Prinetti). Lansdale compie una ricerca minuziosa, entra nei particolari, dissemina il percorso di tante piccole perle di pura narrazione e approfondisce sempre di più la psicologia dei suoi, fino a costruire uno sfondo perfetto nel quale mettere in scena sparatorie e scazzottate come se non ci fosse un domani. Riesce a scrivere quel misto di bravura, luoghi comuni e muscoli guizzanti che sono stati i film di Van Damme (dovrei dire The Rock, per amore di attualità?). Arrivando sempre all’ultimo capitolo con l’amaro in gola e chiudendo sempre con un profondo senso di giustizia e una voglia sfrenata di imparare il karate.
Ecco, qui sta il genio: riuscire a mantenere alto il tono per ventitrè anni anni, pur sguazzando nella necessità della ripetizione, e dare a me l’opportunità di aprire il pezzo con un riconoscimento alla altrimenti noiosissima, ottusa e permalosa provincia di Varese.
NOTA: La vicenda editoriale di Hap e Leonard in Italia non mi è molto chiara, senz’altro c’è stata un po’ di indecisione all’inizio e molta confusione nella disposizione dei vari capitoli, ma dal 2006 tutti i libri sono stati pubblicati da Einaudi Stile Libero, salvo una breve incursione di Fanucci nel 2009, e nel 2013 è uscito un volume comprendente tre racconti altrimenti dispersi (che confesso di non avere ancora letto, ma recupererò al più presto). Ad ogni modo, questi sono i titoli: Una stagione selvaggia (Einaudi, 2006), Mucho Mojo (Einaudi, 2006), Il mambo degli orsi (Einaudi, 2006), Bad chili (Einaudi, 2003), Rumble tumble (Einaudi, 2004), Capitani oltraggiosi (Einaudi, 2005), Sotto un cielo cremisi (Fanucci, 2009), Devil Red (Fanucci, 2010), Una coppia perfetta (con i racconti Nelle mani di Viel, Le iene e Sparare alla cieca, Einaudi, 2013).