Non ho mai affrontato Pitti con grande equilibrio. Più i giorni si avvicinavano, e più venivo ingoiata da un’ansia da prestazione di tutto rispetto, assillando me stessa e quel pover uomo che mi ha scelta come compagna di vita, con quesiti di entità, rilevanza e spessore etico-morali degni della miglior eroina di tutti i tempi.
Se prima affrontavo la kermesse con un angosciante senso di inferiorità, caratterizzato da un crescente shopping compulsivo direttamente proporzionale all’avvicinarsi dei fatidici 3 giorni, con sensazioni che variavano dall’inadeguatezza, tachicardia, sudorazione, senso di bassezza (cioé statura: altezza mezza bellezza, ecco, io sono una mezza sega), sino ad arrivare all’ossessione per miei difetti fisici come 1. Il naso a patata 2. I miei mignoli spastici 3. Le mie guance gonfie, ecco che oggi posso dire di aver superato questi momenti così delicati per la mia psiche ed il mio fragile ego, e di aver voltato pagina.
Sarà il cambiamento della professione per cui da “lavoro-nella-moda-ma-non-sono-cretina“, a “giornalista-QUINDI-sono-intelligente”, i miei sensi di inferiorità si sono rifugiati nel terzo cassetto del mio comò. Ogni tanto, quando lo apro per prendere le mutande che indosserò, mi si ripropongono sotto la solita forma di psicosi delirante/monologo silente: “Allegra, ma pensi di lavorare nella moda tu? E dov’è il tubino nero di Diane Von Furstenberg? E il tacco 12 la mattina alle 8, dov’è? E Belen? E l’Herzigova? Sei diventata amica dell’Herzigova? “. Io ci provo a ribattere, ma mi sento ancora deboluccia, non riesco proprio a prendere il via: ” Lasciami stare, per lavorare nella moda non devo mica per forza essere figa, alta 1,80, con la quarta, sempre impeccabile no?”. E in qualche modo la mia risposta non mi sembra convincente. Forse non dovrei rispondermi, o domandarmi. Ma dev’essere qualche strascico di inferiorità incancrenita nel mio ego di semplice donna alta 1,68. Non bionda. Senza la quarta. E col naso a patata.
Eppure il raggiungimento dell’ambitissima “press room” al terzo piano della kermesse, dove fra noi della professione ci riconosciamo con un semplice sguardo, con tanto di pass che chiaramente indica GIORNALISTA, ha giocato un ruolo importante in questo delicato momento di transizione da non sono una fashion victim (ma avrei voluto) a sono una persona di tutto rispetto.
Mi chiedo nel tempo che mi rimane che è poco viste le lucubrazioni cosmiche su quale sia il mio ruolo nella società, quale sia questo maledetto “effetto-Pitti” che mi ha fatta sentire inadatta alla moda per quidici anni e mi ha portata sin dentro una redazione per redimere un passato troppo sberluccichino e poco intellettuale.
Adesso di intellettuale c’è forse un po’ di forma nelle tre frasi in croce che scrivo, e del contenuto che si porta con se 15 anni di esperienza passati prima nelle fabbriche a fare borse e cinture, poi negli uffici, poi ad aprire nuovi uffici ed infine a dirigerli.
Ma anziché parlare parlare parlare, lascio che sia questo crescendo di immagini a spiegare chi sono io oggi e come vivo Pitti.
E i monologhi psicopatici sono finalmente finiti.
“Ripetiamo tutti insieme: io non lavoro nella moda, io non lavoro nella moda, io non lavoro nella moda, io non ……………”.
“Allegra, ma cosa stai facendo?”.
“Mmmhhhh, mi ha sgamata, che palle…”