MarginiSalomon Malka parla di Levinas

Parigi, Febbraio, ora di pranzo, piove leggermente. Salomon Malka mi viene incontro con un sorriso luminoso, sul sagrato della chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Indossa un impermeabile chiaro e g...

Parigi, Febbraio, ora di pranzo, piove leggermente. Salomon Malka mi viene incontro con un sorriso luminoso, sul sagrato della chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Indossa un impermeabile chiaro e giacca da lavoro. Mi porge la mano con grande calore e mi invita a pranzo in una caféterie poco lontana. Rimango colpito dalla sua cordialità e gentilezza, dall’assoluta mancanza di quella affettazione tipica di molti intellettuali – non solo accademici – nostrani; cordialità, del resto, che mi aveva mostrato fin dai primi contatti epistolari, quando gli chiedevo qualcosa dei suoi libri sull’autore sul quale stavo scrivendo il dottorato, testi che sono stati per me una preziosa guida. Salomon Malka è il maggiore biografo del filosofo ebreo-lituano Emmanuel Levinas, nonché uno dei suoi interpreti più raffinati. Approfittando della sua cortesia, gli ho posto poi qualche domanda, per continuare quella conversazione. La breve intervista che segue riporta le risposte che mi ha mandato. Per chi volesse approfondire, consiglio il suo Emmanuel Levinas. La vita e la traccia, uscito in Italia nel 2003 per Jaca Book.

Dottor Malka, potrebbe presentarsi brevemente?

Sono uno scrittore e giornalista. Laurea in Scienze della Comunicazione. Direttore della rivista “Arche” e RCJ (Radio ebraica di Parigi). Autore di una dozzina di libri, alcuni dei quali sono stati tradotti in una dozzina di lingue.

Lei ha studiato con Levinas, ci puoi dire di questa esperienza? Cosa l’ha colpita di lui?

Ero studente presso l’Ecole Normale Israelite Orientale (Enio) di cui Emmanuel Levinas era direttore. È stato anche il mio professore di filosofia in classe terminale. Poiché ho vissuto da allora quasi sempre nel quartiere di Auteuil, non lontano da casa sua, ho continuato a seguire il corso su Rashi che dava il Sabato mattina all’Enio. Lo vedevo regolarmente, e se non un’amicizia, si è creò almeno qualcosa di molto simile. Nei primi anni ’80, il giornale l’Arche a cui collaboravo mi richiese un intervista con Levinas, cosa che feci. Questo è stato l’inizio di un interesse per la sua opera, che non è mai cessato. Il mio primo libro, Leggere Levinas, che era la prima introduzione alla sua filosofia, è stato scritto in quel periodo. Egli fu il primo a leggere il manoscritto e conservo ancora le sue annotazioni. In seguito, il mio amico Jean-François Colossimo, che allora dirigeva le edizioni Jean-Claude Lattes ed ora è direttore del CNL (Centre National du Livre), mi commissionò una biografia del filosofo. Quel che feci con il titolo Levinas, la vita e la traccia.

Dove pensa si collochi la traccia dell’esperienza personale, nelle opere di Levinas?
Che lezione, anche scandalosa, si trae dalla Shoah, nell’opera del filosofo?

L’uomo e la sua opera si somigliano. È raro trovare un pensatore che somigli tanto alla sua opera. Questo è ciò che mi aveva colpito all’epoca.. Ciò che mi colpisce, anche oggi, è il suo stile. La sua scrittura. Tutto passava nella scrittura in quelle opere. Vi metteva una cura di cui non si ha idea. Poteva sudare sangue e acqua per un testo. Tanto che fino a quando non fosse compiuto, non mollava la presa. Gli capitava, mi aveva confessato la moglie, di uscire di casa e correre fuori per la disperazione, perché non riusciva a trovare la formula giusta per un testo.
Allo stesso tempo, quando dico tutto quello che tutto passava, voglio anche dire che la vita, la biografia, l’affetto arrivavano a attraversare il testo più arduo e più filosofico ed influenzarlo. Non era mai banale, tutto qua.

Quale fu il ruolo dello studio della filosofia e il Talmud nella sua vita?

Levinas una volta disse al suo amico Bernard Dupuy, un uomo eccezionale che qui saluto, che non poteva immaginare che si possa fare una conferenza sulla Shoah. Vuol dire che la Shoah non può servire per fare sermoni, discorsi, lezioni. Io penso che abbia ragione. Ma soprattutto penso che ci sono pensatori, scrittori la cui opera ha attraversato la Shoah. Questo è il caso dell’opera di Levinas, naturalmente, scritta «nel presentimento e nel ricordo». È anche il caso di Vita e destino di Vasilij Grossman, che lui mi ha fatto scoprire.

Filosofo e talmudista, dunque?

Lui è un filosofo dall’inizio alla fine, integralmente, e non è talmudista che «della domenica», come amava dire. Era un’espressione che utilizzava, ma la verità è che preparava le sue lezioni talmudiche con una cura, uno scrupolo, un’attenzione continue. arrivava a delle profondità inimmaginabili. A questo proposito, era stato ad una buona scuola, perché, come lei sa, ha seguito i corsi del formidabile Chouchani, tenuti dopo la guerra. Nello stesso periodo in cui stava preparando le sue lezioni al “Collège international de philosophie” di Jean Wahl, affittava una camera a questo uomo mezzo Rabbi mezzo barbone, che gli prodigò i suoi corsi serali sul Talmud. Egli ha sempre separato le due discipline nei suoi libri, ma nelle conversazioni di tutti i giorni, gli capitava di passare dall’una all’altra e mescolare un ragionamento filosofico e una storia talmudica.

Di cosa si sta occupando lei, al momento?

Terrò un seminario su Levinas ai Martedì filosofici St-Germain, a settembre. Ho intenzione di sviluppare alcuni concetti – la carezza, il caffè, il libro … – un po’ laterali nell’opera di EL, ma sui quali voglio scrivere. Sono solo un po’ di “Levinasseries”, oserei dire, che porteranno forse a un libro. Inoltre, sto lavorando su alcune grandi amicizie, letterarie, spirituali, filosofiche, ma Levinas non vi sarà questa volta.

Voilà. J’espère que mes réponses vous conviendront.
Bon courage à vous!
SM

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