L’onesto JagoBray-Brubaker contro “Tutti dicono I love you”

A me, all'inizio, appena nominato, il ministro Massimo Bray mi faceva pensare a Brubaker. Ve lo ricordate quel film fichissimo, con Robert Redford ancora giovane che viene nominato come direttore ...

A me, all’inizio, appena nominato, il ministro Massimo Bray mi faceva pensare a Brubaker. Ve lo ricordate quel film fichissimo, con Robert Redford ancora giovane che viene nominato come direttore di un penitenziario durissimo, in Arkansas? E lui entra fingendosi detenuto, per capire le reali condizioni del carcere.

Bray aveva fatto qualcosa di simile: andare a Pompei in circumvesuviana è molto più duro dei lavori forzati in una galera di massima sicurezza americana. Poi, il ministro ha continuato a muoversi bene: pochi proclami, ma molta presenza – che non è presenzialismo – andando soprattutto là dove le difficoltà di settore erano più evidenti.

Nel frattempo abbiamo assistito a uno strano fenomeno: parafrasando il titolo di un altro film, “Tutti dicono I love you“.
Non passa giorno senza che qualcuno non dica quanto ami i beni culturali italiani, non passa giorno senza una attestazione di profonda e radicata stima, fiducia, amore per la cultura italiana.
«Solo dalla cultura e dall’arte può ripartire l’Italia!» si sente urlare con emozione e commozione in ogni dove. Ma che davvero?
Noi, e i tanti come noi, che da quasi trenta anni diamo il sangue per questo settore (sottopagati, sfruttati, sputtanati, ridicolizzati) increduli ci chiediamo se sul serio qualcuno, tra i cosiddetti “politici” si sia accorto che calpestiamo ogni giorno quello che era il paese più bello del mondo. E quasi saremmo pronti pure a crederci, per l’ennesima volta, a condividere con rinnovato entusiasmo l’idea che il patrimonio italiano non sia la Fiat (con tutti il rispetto per quanti ci lavorano, ma con meno rispetto per quei quattro fighetti che la dirigono) ma la musica, il teatro, l’arte, il mare, le città. Tutte quelle cosine, insomma, che la classe politica ha sciacallato, depauperato, sfruttato, lottizzato, e alla fine massacrato. Dunque ci piace sostenere Bray Brubaker, mentre si insinua a piazza San Marco e fa togliere un chiosco che nemmeno alla sagra della polpetta; ci piace vederlo discutere del Maggio fiorentino; ci piace vederlo a Spoleto o a Torino. E quasi quasi speriamo, con il cuore pieno di gioia, che davvero a giorni, domani addirittura, Sua maestà Napolitano, che pure il teatro l’ha sempre frequentato, con Enrico Letta e Bray dicano finalmente che i soldi degli F 35 vanno tutti alla cultura, alle scuole d’arte, alle accademie, ai teatri, alle orchestre, al cinema, ai musei, alla poesia, all’arte. Tutti: non un centesimo agli aerei da guerra, ma tutto alla cultura. Mai spesa fu avvertita tanto iniqua e inopportuna dal popolo italiano come quella per i cacciabombardieri: cambiare destinazione a quei soldi sarebbe un segnale non solo economico, ma simbolico, ossia davvero politico, e dunque culturale. Anche perché il settore – nonostante Bray Brubaker e nonostante tutti dicano “I Love You” –, non è al collasso: è proprio collassato.
Prendiamo il caso del teatro (e lasciamo per un istante le fondazioni liriche, che meriterebbero un altro articolo). Il Piccolo di Milano, il tempio di tutti i templi, a detta del suo direttore Escobar rischia la chiusura per la follia del sistema di spending review; all’Arena del Sole si lavora gratis per solidarietà e per scongiurare la fine dello storico teatro bolognese; il Biondo di Palermo è in agitazione e senza fondi; a Catania i dipendenti si sono incatenati davanti al teatro per non perderlo; lo stabile delle Marche è commissariato. A Siracusa, l’Inda, l’Istituto Nazionale del Dramma Antico è senza sovrintendente e senza cda. Al teatro di Messina il futuro sembra alquanto incerto, a Napoli sono in ritardo pluriennale con i pagamenti. È possibile tutto ciò?
Questi sono i casi più eclatanti: la crisi – mai o quasi dovuta a cattiva gestione da parte dei teatranti, vale la pena ricordarlo con forza – sta mettendo in ginocchio tutto un mondo. Non si tratta solo di posti di lavoro (che comunque vanno tutelati) ma di un intero sistema culturale. Perché poi, a catena, se i principali teatri boccheggiano, anche gli altri, fino alle compagnie giovani e giovanissime, rischiano e tanto. Si fa fatica, a sopravvivere nel teatro italiano: qualcuno lo dice?
Ci scandalizziamo tutti quando vediamo gli estremisti musulmani distruggere le statue di Budda o bruciare le biblioteche del Mali. Ma noi, qua, non stiamo facendo lo stesso? Con meno clamore, con meno bombe, con meno fretta: ma distruggiamo. Teatri, musei, piazze, biblioteche, libri: distrutti.
Mentre l’Unesco ci richiama all’ordine, si annunciano ancora tagli, e pesanti: e non vorremmo davvero che Bray facesse la fine di Brubaker, amato dai detenuti ma di fatto allontanato da un sistema immutabile e impermeabile. Che ne facciamo di questi tagli? Diciamo che siamo il Paese dai mille siti patrimonio dell’Umanità, e poi li lasciamo morire?
Gli artisti reagiscono occupando (vedi Teatro Valle di Roma, teatro Garibaldi di Palermo, teatro Rossi di Pisa per citarne alcuni) o lavorando – sempre più – a titolo gratuito o rimettendoci di tasca propria – perpetuando uno scandalo solo italiano –, pur di far vivere il nostro teatro: lo Stato ha il dovere di dare un segnale, una risposta non solo a questa gente, ma al Paese.
O continuiamo a fare finta di nulla?
La mesta stagione dei festival estivi è cominciata, nonostante tutto. Il pubblico continua andare a teatro, nonostante tutto. In tanti, giovani e meno giovani, continuano a fare teatro, nonostante tutto. Sarebbe ora che la politica facesse politica. Nonostante tutto.

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