Così è…se traspare. Storie di finanza e (mancanza di) trasparenzaThe Others: e se fossimo già nell’aldilà del default?

    Una donna dai lineamenti fini, bionda e austera e due figli dal viso cereo e malato, che la luce divora come un morbo. Il terrore dei fantasmi e poi il colpo di scena finale: i fantasmi siamo ...

Una donna dai lineamenti fini, bionda e austera e due figli dal viso cereo e malato, che la luce divora come un morbo. Il terrore dei fantasmi e poi il colpo di scena finale: i fantasmi siamo noi. The Others, un capolavoro dei film dell’orrore: il terrore visto con gli occhi dei fantasmi. E se anche noi stessimo vivendo lo stesso dramma? Se al di là dei nostri esorcismi, i nostri pareri informati e le nostre danze propiziatorie fossimo già in default, o in qualche cosa di simile? Ma, come in The Others, i segnali sono contrastanti, ed è questo contrasto che fa salire l’angoscia. Lo spread è un po’ alto ma stabile. Il corpo del settore produttivo è fermo, il salasso del settore privato continua, e l’emorragia di spesa pubblica non è stata tamponata. Quando finirà il sangue? Siamo morti o siamo vivi? O siamo in coma?

Qualche post, fa un lettore dimostrò interesse per una domanda: qual è il livello del debito oltre il quale il mercato non ci rifinanzierà più? Quando potremo dire di essere morti? Come avevo scritto, stiamo lavorando a questa domanda Angelo Baglioni, il sottoscritto, e un nostro ex-collega che è costretto a mantenere l’anonimato perché ancora dentro l’industria. Abbiamo deciso di aprire le nostre riunioni alla rete e condividere i nostri ragionamenti con chiunque voglia dialogare con noi.

Quando muore un uomo? Si dice che un uomo è morto quando è in arresto cardio-respiratorio, oppure, se attaccato a una macchina, quando viene meno l’attività cerebrale. Anche per un azienda è facile capire quando è arrivata la fine. Il default arriva quando il valore delle attività di un’azienda è inferiore al valore delle passività, ed il valore del capitale scende verso zero. E’ vero che non è sempre così liscia. In primo luogo, i casi di Enron negli Stati Uniti e di Parmalat in Europa ci dicono che anche un’azienda morta può sembrare viva. E si scopre che il vivo in realtà è già morto perché un cavaliere che lo vuole sposare annusa il fetore della sua carne (Dynegy per Enron), oppure perché arriva un fax che dice che è morto, come è successo a Parmalat. Sono le storie dell’orrore dei falsi in bilancio. E poi ci sono i vivi che si fingono morti, per forzare la ristrutturazione del debito e fare intascare agli azionisti soldi che dovrebbero invece andare ai creditori: è quello che in linguaggio accademico si chiama “servizio strategico” del debito.

Ma quando fallisce uno stato? Quand’è che il mercato si rifiuta di sottoscrivere il debito in scadenza e il nuovo debito? Non lo sappiamo, e dalle vicende di questa settimana capiamo che non lo sa nessuno. Lo mostra la rivelazione di De Bortoli, non confermata dai protagonisti, di un piano segreto quando “vi fu un momento nel quale temevamo di non poter più collocare sul mercato titoli del debito pubblico”. Che il decreto segreto sia o meno una leggenda, non lo è la paura di quei giorni. E anche oggi, il comunicato congiunto delle autorità di vigilanxa del 22 luglio, che istruisce i gestori a svincolare le loro valutazioni di rischio dalle sirene della agenzie di rating, segnala la stessa paura. Stessa paura, risvegliata dallo spettro della discesa dei titoli pubblici sotto il livello di investment grade, di non riuscire a collocare il debito. Le autorità di vigilanza hanno officiato congiuntamente la stessa litania, con le stesse formule, come sciamani per purificare i mercati dagli spiriti delle agenzie di rating.

Nessuno sa dove sia il limite del default di uno stato. Sulla rete si trovano dei numeri, 150% del PIL, sconfessati dalla realtà di casi di debito ben più elevato. Questo sujggerisce che il problema è ancora più complesso: probabilmente ogni stato ha un limite diverso, legato a caratteristiche che solo in parte sono comuni a altri casi. O forse non è legato a caratteristiche dell’emittente, ma degli investitori, che hanno in mente una sorta di “equilibri focali” per cui in un certo punto del tempo e dello spazio una soglia di debito sul PIL diventa insormontabile. In alcuni casi, però, la presenza di previsioni istituzionali può aiutare e favorire l’aggregazione di questi equilibri. E’ il caso delle regole del fiscal cliff americano e del rientro dal debito eccessivo nella unione europea.

Ed eccoci all’Italia, e al suo paradosso. Siamo a due passi dal declassamento del debito a junk, e ci aspetta un processo di aggiustamento del debito che, al livello di spread di credito attuale, richiederebbe di tenere il surplus primario per venti anni a un valore medio di circa il 4,5%. E’ come dire che per i prossimi venti anni io correrò una maratona l’anno con un tempo medio di due ore nette: che probabilità mi attribuite? Beh, fatemi almeno gli auguri di correre e terminare la mia prima maratona che ormai sto preparando da anni. E allora, perché non siamo morti? Perché lo spread non ci uccide? L’unica risposta sono le macchine. Siamo in uno stato di coma, in attesa di essere attaccati alle macchine di ESM e OMT. Lo spread è contenuto perché sconta una elevata probabilità che l’aiuto venga chiesto e venga accordato, e che la BCE passi con il Napalm contro ogni guerriglia di tipo speculativo che possa succedere alla concessione dell’aiuto. Quei 280 punti base, che comunque significano più o meno una probabilità su tre di default in 10 anni, scontano uno scenario di una lunga agonia in cui in un caso su tre le macchine non riusciranno a scongiurare la frase: “lo stiamo perdendo”.

Ma se il paragone tra l’ingegneria degli aiuti europei e quella delle tecniche di rianimazione ci consente di capire perché la frontiera della morte si è allontanata, non ci aiuta a comprendere che le macchine possono avere un effetto collaterale: quello di funzionare anche se non sono attaccate. In finanza, la sola presenza del defibrillatore impedisce la crisi cardiaca, ma non può guarire un cuore malato. Per questo, possiamo ancora permetterci di stare fermi, e di rimandare l’aggiustamento, come abbiamo fatto nei primi dieci anni dell’euro. E per questo, forse, il modo migliore di guarire è decidere di attaccarci alle macchine. L’unica domanda è se farlo con un governo debole, e cioè oggi, o con un governo forte, che sappia collaborare e lottare come si deve lottare per uscire dal coma.

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