Via EAST SIDE REPORT
Il miraggio del fracking e dell’oro azzurro a basso prezzo è arrivato anche in Ucraina. E come poteva non esserlo, visto che l’ex repubblica sovietica da un lato pare che nasconda nel suo sottosuolo enormi riserve di gas di scisto, dall’altro vede il futuro sfruttamento di esse come il mezzo principale per emanciparsi dal giogo di Mosca e raggiungere l’indipendenza energetica. Sull’onda del successo che la fatturazione idraulica (si pompano misture chimiche nel terreno per liberare attraverso la pressione il gas imprigionato negli strati rocciosi) ha avuto negli Stati Uniti negli ultimi anni, rivoluzionando il mercato e facendo crollare i prezzi, le multinazionali dell’energia sono arrivate in massa dai Carpazi al Mar Nero alla ricerca del tesoro ucraino. Da spartirsi, concedendo naturalmente qualcosa ai padroni di casa.
I maggiori giacimenti – Oleska a ovest e Yusivska a est, che da soli si dividono la gran parte dei presunti 1200 miliardi di metri cubi di gas che costituiscono le terze riserve europee dopo quelle di Norvegia e Francia – sono stati presi di mira da giganti come Chevron e Shell. I primi si sono buttati su Oleska, nella regione di Leopoli, i secondi su Yusivska, nel Donbass. Proprio per questo giacimento è stato sottoscritto lo scorso gennaio un Psa (Production Sharing Agreement) della durata di 50 anni tra la Shell e Nadra Yusivska, compagnia che al 90% appartiene allo stato attraverso la casa madre Nadra Ukrainy, mentre una quota del 10% è detenuta dalla sconosciuta Spk Geoservice, azienda di consulenza riconducibile secondo gli osservatori ucraini alla Famiglia, ossia al gruppo di potere che si muove intorno al presidente Victor Yanukovich.
È stato proprio il capo dello Stato ad annunciare a Davos la firma del “contratto del secolo” di dieci miliardi di dollari, in calce alla quale sono finite le firme del ceo della Shell Peter Voser e del ministro dell’Energia ucraino Eduard Stavitsky, altro esponente di punta del cerchio magico presidenziale. Fin qui i fatti, nemmeno troppo sensazionali, visto che vedere i big dell’energia fare il proprio mestiere senza badar troppo alle questioni di principio non è certo una novità.
Ma accanto al fatto, già paradossale, che il sistema autoritario di Yanukovich tanto criticato a Washington e Bruxelles, viene di fatto puntellato e rafforzato economicamente da Occidente, l’intera cornice politica interna è ancora più assurda: mentre l’ambasciatore americano a Kiev John Tefft si spende in azioni di lobbie tra conferenze e seminari per illustrare la bontà del fracking agli sprovveduti ucraini che hanno già iniziato ad alzare le prime barricate contro i progetti di trivellazione, dall’altra è nata la strana alleanza tra nazionalisti e comunisti contro Yanukovich.
Il presidente, che passa in Occidente per un amico del Cremlino mentre in realtà Vladimir Putin lo tollera a malapena, si è attirato allo stesso tempo le ire di Oleg Tiahnybok, il leader dell’estrema destra di Svoboda, entrata in pompa magna in parlamento lo scorso autunno, e di Petro Symonenko, lo storico capo del partito comunista, che lo accusano di fare il gioco dell’Occidente e di tradire gli interessi nazionali. Svoboda cerca di convogliare la protesta popolare mischiando slogan antiglobalisti e ambientalisti, i comunisti lo fanno sull’onda dell’antiamericanismo.
Il risultato è che per quel riguarda il fracking, Yanukovich è circondato e, altro paradosso, l’opposizione si schiera indirettamente sulla linea di Mosca che vorrebbe mantenere lo status quo e la dipendenza di Kiev dal gas russo. Le posizioni si ribaltano però quando dal gas di scisto si passa a quello tradizionale e al tema del sistema di trasporto ucraino, che Yanukovich avrebbe già promesso a Putin e invece Tiahnybok e Symonenko vorrebbero mantenere di proprietà ucraina.
La realtà è insomma che l’intera questione del gas in Ucraina e delle relazioni pericolose con la Russia e gli avvicinamenti all’Occidente è da misurare senza troppe farciture ideologiche, ma guardando alla sostanza. Al cui prodest, in senso meramente economico: Gazprom, Naftogaz, Chevron, Shell o il colosso multinazionale di turno; gli oligarchi russi o quelli ucraini, la Famiglia (al Cremlino o a Kiev). Sul fracking, poi, non è escluso che gli entusiasmi si spengano presto. Basta vedere ciò che è successo nella vicina Polonia, spacciata un paio di anni fa come l’Eldorado per il gas di scisto e da dove i primi falchi a stelle e strisce guidati da ExxonMobile se ne stanno già andando delusi. Fratturare in Europa non è come negli Usa. Costa molto di più e, almeno per ora, pare che non ne valga la pena.
Tratto da EAST SIDE REPORT