Stamattina, se mi permettete, scriverò di qualcosa che mi sta molto a cuore e che, per una volta, va al di là di Napoli e dei Napoletani. Quando ho aperto questo blog – quando i signori de Linkiesta mi hanno detto di sì e io ho scelto il nome e ho pensato ad una descrizione – la prima cosa che mi è venuta in mente è stato ‘o pernacchio di Eduardo De Filippo: un monologo di qualche minuto che il famoso attore tiene ne L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, dove spiega – per dirla molto semplicemente – che cos’è il pernacchio, a che serve e quando usarlo. È lo strumento ultimo, l’asso nella manica, che resta al più debole, al più povero, contro il potente ed il ricco. E stamattina farò proprio questo: userò ‘o pernacchio per dare spazio ad una notizia – ad una voce – che ha avuto poco risalto. Sto parlando di Giulio Cavalli e della sua lettera a L’Espresso: una richiesta d’aiuto, “basta parole: ora salvatemi”, che è stata letta e condivisa da tante persone, ma – secondo me – non abbastanza.
In base a cosa un paese si definisce civile? Alla qualità dei servizi che offre ai suoi cittadini o, molto più semplicemente, alla libertà che può garantire? Giulio Cavalli è tante cose: autore, scrittore, attore. E ha parlato di criminalità organizzata, ed è stato minacciato. Un pentito, l’ex boss Bonaventura, ha giurato di poter fare i nomi dei politici che sono implicati nell’organizzazione del suo attentato. E Giulio ha paura, solo questo. Com’è del resto ne avrebbe chiunque nella sua posizione. Non è una semplice presa di posizione la mia. Non starò qui a dire l’ovvio: certe cose non dovrebbero succedere; certe storie non si dovrebbero sentire. Perché, paradossalmente, sono arrivato alla conclusione – che spero sia solo momentanea – che certi atti straordinari servono. Che la società italiana non è società capace di risollevarsi da sola: ha bisogno di esempi da seguire. Esempi come Giulio Cavalli che, tuttavia, non vanno lasciati soli.
«In un Paese normale (ma noi non siamo un Paese normale) in questo ultimo mese l’ex boss sarebbe stato trascinato davanti ad un magistrato per dire tutto quello che sa (e tutto in un colpo solo, magari) e ci avrebbero già detto se è folle, sincero, manovrato o coraggiosissimo. In un Paese normale, certo: in questo ultimo mese ho incassato solidarietà, tanta, come se piovesse, e più di qualcuno mi dice che dovrebbe bastarmi così.» Ma non è della solidarietà che Giulio ha bisogno; è di aiuto, di protezione, di qualcuno che gli stia vicino e che gli dica, prove alla mano, che tutto andrà bene. La sua voce si unisce ad un coro tormentato, perenne, sbiadito nella memoria ma sempre presente. Non è la solidarietà quello di cui ha bisogno – quella è bene comune, la reazione convenzionale di una comunità a certe situazioni, non quella di uno Stato, non quella delle Istituzioni. Ha bisogno di protezione. Il momento delle parole, delle chiacchiere, è finito: ora salvatelo. Anzi, salviamolo.
Twitter: @jan_novantuno