È diventato difficile fare colpo al primo lavoro, specialmente se sei napoletano e specialmente se hai da girare un film. Lo sforzo raddoppia quando a) sei anche giovane e b) il tuo film non è un live action, ma un lungometraggio animato. Per Alessandro Rak, regista de L’Arte della Felicità, film d’apertura – e fuori concorso – dalla Settimana della Critica alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia di quest’anno, è andata bene. Anzi, forse – come azzarderebbe a scrivere qualcuno – «troppo bene», e invece io, da napoletano, m’accontento di un stupendamente. Non sono un fan del genere – gli animati italiani non mi sono mai piaciuti granché, lo ammetto – ma in questo caso ho dovuto ricredermi. E attenzione: mi sono ricreduto già dal trailer, appena qualche minuto di scene, di colori, di primi piani, di un Vesuvio lontano e immenso, di un taxi, di voci che si accavallano e rincorrono, e di rumori. È paradossale: ho riconosciuto molto di più Napoli – la mia Napoli – ne L’Arte della Felicità di Alessandro Rak che in qualsiasi altro film abbia visto recentemente ambientato qui, tra vicoli, vicarielli e case sgarrupate. Ha un che di rivoluzionario: una storia potente, che si impone sopra ogni altra cosa. Il protagonista, taxista – per dirla terra terra – e pianista, è Sergio: occhi, orecchie e cuore per lo spettatore. L’ambientazione è, non l’aveste capito, Napoli.
L’Arte della Felicità è una perla – non vado per il sottile su questo – di cui essere fieri. E non lo dico io, ma l’Hollywood Reporter che, giornale di spicco e tabloid di riferimento in tutto il mondo del cinema, ne parla sinceramente, a mente e cuore aperti, raccontandone la storia e sottolineandone la particolarità. «Un film insolitamente per adulti», lo definisce così. Ed effettivamente L’Arte della Felicità, benché classificabile nel filone delle favole moderne, è chiaramente destinato ad un pubblico più maturo: quella che viene raccontata è la Napoli travagliata, la Napoli piena di problemi; la Napoli da cui un po’ tutti, alle volte, vorremmo fuggire. Eppure, specie nei colori e nei disegni tavolta estremamente sfuggevoli, c’è comunque la speranza. Il sogno: quello di Sergio che, nel corso del film, diventa pure il nostro.
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